TRAMA
Algeria, anni ’90. La pacifica convivenza tra otto monaci francesi e la popolazione locale è compromessa dall’inasprimento del conflitto tra il governo e gli islamisti.
RECENSIONI
Se nessuno ve l’ha ancora detto, lo facciamo noi: Xavier Beauvois è uno dei maggiori talenti che il cinema francese, il migliore al mondo, abbia prodotto negli ultimi venti anni. Attore, sceneggiatore e regista, dal 1991 al 2005 Beauvois ha girato quattro lungometraggi, tre dei quali semplicemente bellissimi. Forse il solo Selon Matthieu (2000), storia di ingiustizie operaie e vendette incompiute, palesa qualche limite di schematicità narrativa e calligrafismo visivo. Ma Nord (1991), tragedia familiare ambientata nel Pas-de-Calais, il successivo N’oublie pas que tu vas mourir (1995), racconto di autodistruzione tra sieropositività e vitalismo, e Le petit lieutenant (2005), sobrio polar in equilibrio tra cronachismo e drammaticità, tracciano un profilo cinematografico di indubbia levatura espressiva.
Realismo aspro e privo di vezzi ornamentali, atmosfere plumbee e opprimenti, conflitti umani alieni da ogni manicheismo, protagonisti antieroici e moralmente imperfetti: questi i tratti principali del suo cinema. E, su tutto, la ferma ostinazione di sgretolare la logica narrativa del dilemma. Già, perché ciascun film del quarantatreenne cineasta francese pone di fronte a uno o più dilemmi (ribellarsi al padre o sopportare passivamente? curarsi o correre incontro alla morte? subire l’arbitrio dei padroni o vendicarsi personalmente?) che il film stesso s’incarica di demolire sotto i colpi di una problematicità inizialmente ignorata. Sequenza dopo sequenza, l’alternativa di partenza si svuota di senso, si rivela un guscio vuoto. Al suo posto compare la problematicità soggiacente: non c’è decisione giusta o sbagliata in assoluto, non c’è gloria trionfante nello scegliere, ma, più umilmente e autenticamente, responsabilità dubitante.
Un cinema della ferita, dunque. Non tanto e non solo una ferita reale (il taglio delle vene di N’oublie pas que tu vas mourir, le coltellate nel ventre di Le petit lieutenant), quanto piuttosto una ferita morale: quella che squarcia la superficialità dell’alternativa per mostrarne le interiora, la dimensione nascosta che risiede oltre l’epidermide. Anatomia del dilemma, in altri termini, e non è certo fortuito che sia N’oublie pas que tu vas mourir sia Le petit lieutenant presentino sequenze necroscopiche: osservare gli organi interni rivolta, impone una modificazione del punto di vista, obbliga a rivedere ciò che si riteneva definitivamente chiuso. Beauvois concepisce i suoi film come corpi da sezionare, entità da sviscerare, sia che si tratti di ribellioni incestuose (Nord), malattie in incubazione (N’oublie pas que tu vas mourir), licenziamenti arbitrari (Selon Matthieu) o iniziazioni poliziesche (Le petit lieutenant).
Con Des hommes et des dieux (stentatamente tradotto in italiano con Uomini di Dio) il cineasta francese prosegue l’indagine del dilemma, analizzando le dinamiche comunitarie e i tentennamenti profondamente umani degli otto fratelli trappisti del Monastero dell’Atlante in Algeria. Armoniosamente integrati nella realtà del villaggio di Tibhirine (“giardino” in arabo) ma minacciati dalle scorribande dei terroristi che imperversano nella zona, i monaci rifiutano la protezione dell’esercito e continuano la vita di sempre, con la sola precauzione della chiusura notturna del monastero. La scelta compiuta dal priore Christian (Lambert Wilson) non manca tuttavia di sollevare dubbi in alcuni fratelli, che esprimono le loro riserve nelle riunioni capitolari fino a formulare l’ipotesi di lasciare il paese per evitare un inutile martirio.
Se la prima votazione finisce in stallo (tre favorevoli alla partenza, tre contrari, due chiedono tempo), la successiva deliberazione vede gli otto religiosi esprimersi unanimemente per la permanenza. Eppure non sono le decisioni prese dai fratelli a contare, ma le loro esitazioni (“Non importa la risposta”), le loro incertezze (“Vivremo con questo dubbio”). Monaci senza superbia ma scossi dal timore (le remore di Célestin e Paul), dal tremore (la crisi di Cristophe), dal terrore (il nascondersi di Amédée e Jean-Pierre): non esaltati in cerca di martirio, ma uomini abitati dalla stanchezza (le innumerevoli visite mediche giornaliere effettuate da Luc), dallo sconforto (la pausa di Michel alla legnaia), dalla fragilità (“La debolezza, in sé, non è una virtù ma l’espressione di una realtà fondamentale del nostro essere”).
Forte del magistero dreyeriano e bressoniano ma senza scadere nell’imitazione pedissequa, Beauvois scolpisce una messa in scena austera e disadorna (colonna sonora esclusivamente diegetica) che contrappone la regolata geometria degli interni monastici all’asimmetria, ora gioiosa ora tragica, degli esterni nel villaggio e nei luoghi circostanti. Se nel monastero è la misura del primo piano (spesso fisso e decentrato) a prevalere, nello spazio aperto le inquadrature si allargano, frequentando con attitudine ambientale l’intera scala visiva (dai particolari truculenti ai campi lunghi immersivi). Non rinunciando alla psicologia ma allo psicologismo (dai volti dei monaci non è possibile ricavare un pensiero univoco), il cineasta francese tratta i sentimenti con immutata sensibilità: la carola di primi e primissimi piani che, sulle note tchaikovskiane, incatena le effigi dei fratelli con lapidaria frontalità non le riduce a icone astratte portatrici di un affetto enfatico ma ne coglie empaticamente il dilagare delle emozioni. Il medesimo rispetto per gli uomini che pervade il Testamento spirituale di frère Christian: “So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti. L’Algeria e l’islam, per me, sono un’altra cosa: sono un corpo e un’anima”.
Xavier Beauvois, regista che solo recentemente sembra aver trovato forma e toni giusti (Le petit lieutenant), dopo anni di avventure cinematografiche discutibili, tra narcisismo auto assolutorio e stucchevole tardo romanticismo (N’oublie pas que tu va mourir), firma con Des hommes et des dieux, impropriamente e biblicamente tradotto in Uomini di Dio (della serie: non avrai altro Dio al di fuori di quello cristiano…), la sua opera più compiuta e complessa.
Vincitore del Gran Prix du Jury all’ultimo festival di Cannes e trionfatore a sorpresa ai botteghini francesi, il film parte dalle testimonianze lasciate dagli otto monaci cistercensi francesi a Tiberine, regione montuosa dell’Algeria (registrazioni sonore, lettere), per ricostituire i loro ultimi mesi di vita. L’autore si concentra, in particolar modo, sulla messa in immagini e in racconto dei riti della quotidianità e delle pratiche iterate, all’interno come all’esterno del monastero, intercettando la prossimità spontanea e post-coloniale tra i francesi e la popolazione locale, un’apertura non avente per principio l’evangelizzazione; grandi blocchi narrativi che, soprattutto nella prima parte, contribuiscono a rendere conto, con poche pennellate massimamente rappresentative, di un’umanità culturalmente divisa ma unita nel bisogno, nel dolore. I dialoghi riescono miracolosamente a materializzare l’idea e il senso dello scambio e della dialettica (si pensi alla conversazione sull’amore tra Luc/Michael Lonsdale e la giovane algerina), purificati e spogli come lo sguardo del regista, interessato più a captare i sospiri delle anime e i tremiti dei corpi che a registrare i dibattimenti culturali e teologici.
Di fatto, anche con l’emergere del conflitto culturale, coincidente con la prima irruzione dei ribelli islamisti nel monastero, il narratore rimane incollato ai volti e agli sguardi indirizzati verso l’Altro o proiettati in un altrove (il film prolifera di sguardi riflessivi persi nel vuoto) mai identificabile. Questo altrove, infatti, sicuramente metafisico, non coincide mai con l’aldilà: è il mistero dell’aldiquà ad essere colto, in una sorta di metafisica della quotidianità assieme palpabile e sfuggente.
Dubbi, lacerazioni, frustrazioni. Ogni carattere si fa portatore di un insopprimibile desiderio di resistenza, un bisogno che non ha nulla di eroico: dalle splendide e non rassegnate ultime parole di Christian (Lambert Wilson) alle lamentazioni amorose del più giovane dei monaci, dalla dolcezza infinita e l’ostinata apertura di Luc agli occhi pieni di amore e paura dell’anziano futuro sopravvissuto.
Con un pudore e un’onestà intellettuale rari, che lo spinge a optare per un fuori campo eticamente e esteticamente necessario nella sequenza finale (non conosciamo con esattezza lo svolgimento dei fatti, visto che la corresponsabilità dell’esercito algerino nel massacro è più che presunta ma non certa), Beauvois laicizza la materia presentandoci un universo di uomini fragili che hanno pascalianamente “scommesso”, consapevoli che tale scommessa non colmerà mai il vuoto, l’assenza, il silenzio. Ogni gesto potenzialmente ad alto tasso simbolico (il bacio della ferita del Cristo da parte di Luc), ogni simmetria o “cadrage” geometrico suscettibile di “iconicizzare” gli agenti e gli eventi sono sottoposti ad un processo di naturalizzazione e de-ieraticizzazione che fa di Des hommes et des dieux una delle riflessioni laiche e umaniste sul rifiuto della separazione e sulla necessità dell’incontro più potenti degli ultimi anni. Il tutto suggellato da due momenti di puro cinema che tolgono il fiato: il viaggio in auto del monaco più lacerato (in semi-soggettiva) e la lunga sequenza del prefinale. In questa estrema elegia, disincantata e straziante, accompagnata dal Lago dei cigni di Tchaikovski e costituita da una serie di primissimi piani quasi pasoliniani, si afferma la verità degli uomini, terribilmente soli di fronte alla morte, e si percepisce il silenzio assordante di Dio, degli dei, prima della tempesta.
Opera che ha raccolto numerosi premi, per quanto lo stile di Xavier Beauvois non sia autoralmente folgorante: l’elemento più originale, in un tempo in cui l’anticlericalismo, urlato o sotteso, non è più oltraggioso, è lo sguardo elegiaco su questi uomini di fede che sono stati coerenti fino alla fine, pur con tutte le debolezze e i dubbi da esseri umani. Beauvois non è né neutro né «laico», né schierato né fazioso nel riferire della loro fede: aderisce ai suoi martiri e ne mette in scena lo spirito idealistico, perché solo in questo modo riesce a spiegare il loro gesto, basandosi anche sugli scritti lasciati dai protagonisti della vicenda, Christian de Chergé e Christophe Lebreto. Per motivare la loro scelta, inoltre, Beauvois e lo sceneggiatore Etienne Comar immettono molti atti di Credo (oltre alla lettura di scritture scelte non a caso), di cui uno molto interessante sul significato dell’incarnazione del Cristo. A livello estetico, il regista accosta scene brevi, privilegiando un approccio corale che restituisca il quadro generale del luogo, mettendo in parallelo, all’inizio, la vita monastica con quella del villaggio, per poi concentrarsi sul monastero, in assenza di commento sonoro (se non, sorta di intervallo fra un episodio e l’altro, i diegetici canti dei monaci). Un approccio realistico e/ma teso a restituire l’animo talare, la loro indole, la loro missione, la loro Fede, piuttosto che a realizzare mera cronaca degli eventi. Un cinema parco di parole, dove queste ultime, per essere necessarie, dovrebbero essere puntuali ed esaustive nel punteggiare svolte importanti (quando il capo della comunità di Lambert Wilson decide di non usufruire della protezione dell’esercito o quando si rifiuta di fornire medicinali ai fondamentalisti): non è sempre così ma, infine, l’opera sa restituire senso e personaggi, chiudendo con una scena meravigliosa, quella in cui, nel refettorio, Michael Lonsdale estrae due bottiglie di vino, ascolta ‘Il lago dei cigni’ e Beauvois scruta, con carrello, le espressioni dei monaci, prima felici, poi meste, specchio della musica le cui arie passano dal giocoso al cupo. “Voi siete dèi (...) eppure morirete come ogni uomo” dice il salmo in apertura.