
TRAMA
Max, rampante uomo d’affari, è riluttante ad abbandonare anche solo per qualche giorno la sua Londra per andare in Provenza a occuparsi dell’eredità ricevuta dallo zio. Naturalmente, una volta sul posto, cambierà idea.
RECENSIONI
Tratto da un romanzo di Peter Mayle (sviluppato, narrano gli uffici stampa, proprio a partire da una conversazione con Ridley Scott), A Good Year avrebbe tutto per essere l'incarnazione del Male cinematografico, limitandosi a illustrare in chiave di ameno cazzeggio la contrapposizione fra il grigio mondo di squali hi-tech della City, in cui i cieli stellati si vedono solo dipinti (e comunque l'originale resta in cassaforte), e i colori saturi della Francia meridionale, in cui fra ricchi pampini, inganni generosi e fanciulle bizzose i capolavori dell'arte passano tranquillamente inosservati, complice un'atmosfera rustico-glam così sfacciata da risultare inadatta persino a uno spot pubblicitario. Ed è proprio questo il punto: il film di Scott eleva la formuletta a proporzioni quasi epiche, esagera senza pudori, mescola con estro degno di miglior causa tutti gli stereotipi del caso e serve in tavola il piatto precotto e semidigerito con l'altezzosa modestia del cameriere di rango. Gli immancabili flashback - con lo zio che dispensa al nipote pillole di saggezza e assaggi di/vini - s'inseriscono agilmente nello slabbrato tessuto narrativo (la passeggiata proustiana che Max compie all'arrivo in campagna), i dialoghi hanno più di un guizzo (la caratterizzazione dell'entourage londinese del protagonista), il citazionismo finto-ingenuo (il cane Tati) trova il suo scoppiettante apogeo nella sequenza della cena romantica (con tanto di megaschermo nello schermo: un ammiccamento metacinematografico adeguatamente puerile), gli attori (compresa una Bruni Tedeschi inaspettatamente "leggera") si crogiolano con consumata indolenza nelle rispettive maschere. Puro caramello visivo che nell'arco di due ore non arriva mai a stomacare. Nel suo (detestabile) genere, una perla.

Forse Ridley Scott aveva da anni la fissazione di realizzare una pellicola sul vino perché ha posseduto a lungo un vigneto e gli sembrava che questo bastasse. Forse Crowe si è fidato troppo del regista che lo ha portato alla celebrità ed ha sperato più del dovuto nel breve soggetto visionato prima di accettare il film.
Fatto sta che Un'ottima annata, pur contando probabilmente su discrete potenzialità commerciali, specie in periodo natalizio, risulta alla fine poca cosa.
Poca trama, pochi sviluppi, pochi nodi da sciogliere, pochissime novità. Poco per un regista volpone come Scott senior e poco per il bovino ma bravo Crowe. Un'ottima annata si esaurisce alla fin fine in una classica storia di "ridenzione" e rinascita con risvolti sentimentali ed ambientazoine accattivante.
Vicenda edificante un po' alla Frank Capra in versione moderna e banale, col solito squalo - tanti soldi pochi affetti nessuno scrupolo - che per puro caso riscopre chi era un tempo, chi potrebbe essere, che genere di vita vuole.
Il vino in realtà gioca un ruolo limitato, usato nel modo più elementare per insegnamenti essenziali (in vino veritas) e come metafora della capacità di gustare i piaceri della vita (non a caso il protagonista all'inizio dice di preferire il cognac che gli permette di ubriacarsi in fretta, rispetto al vino, che richiama invece i ritmi lenti della vita piacevole lontana dagli affari).
Il film non scorre noioso, grazie a sottili ironie ed a trovate più riuscite (i personaggi di contorno, il contesto in cui avviene la cena romantica), alla mano sicura di Scott ed all'aderenza di Crowe al personaggio. Tutto resta però troppo prevedibile e sfilacciato, basti pensare all'inserimento forzato della figlia illegittima, al mistero prevedibilissimo del vino prelibato, all'inconsistenza della storia d'amore. Meglio i flashback, che beneficiano della presenza di Albert Finney, anche se rimangono espressione di una morale troppo facile.
A compensare le carenze, la pellicola punta evidentemente molto sullo scenario della Provenza, e specialmente sul bellissimo chateau, ripreso con dovizia e ruffianeria da cartolina (non che non venga comunque voglia di raggiungerlo all'istante, sia chiaro). La fotografia sceglie nel modo più esplicito possibile di dare alla Londra dei palazzi affollati di brokers una gelida luce blu, ai paesini ed ai vigneti provenzali il calore delle sfumature del verde e del marrone.
Tra Il profumo del mosto selvatico e Sideways, si potrebbe osare per ironizzare sulla recente ossesione vinicola del cinema.
