Drammatico, Recensione

UNE VIE MEILLEURE

Titolo OriginaleUne vie meilleure
NazioneFrancia
Anno Produzione2011
Durata118'
Fotografia
Montaggio

TRAMA

Yann è uno chef che non trova lavoro. Nadia è una cameriera con un figlio da un altro matrimonio. I due si innamorano, lui la coinvolge nel suo piano per il futuro: aprire un ristorante di loro proprietà. I soldi non ci sono ma Yann non intende rinunciare, quindi decide di rivolgersi ad alcuni creditori.

RECENSIONI

Titolo speranzoso ma antifrastico (non c'è nulla che migliori davvero), Une vie meilleure inizia con un rifiuto e un incontro: Yann (Guillaume Canet) si vede negare il lavoro come chef ma, nell'arco della stessa scena, conosce la libanese Nadia (Leïla Bekhti) che diventerà la sua compagna. Dal 'rifiuto' nasce l''unione' che porta alla 'costruzione': della vita insieme, dell'allevamento di un bimbo, del ristorante che progettano di aprire. E il tentativo di costruzione è il cuore dell'ottavo lungometraggio di Cédric Kahn, cineasta tanto centrale in Francia quanto oscurato da noi (la maggior parte dei suoi film non sono mai usciti). Costruzione di qualcosa in comune qui e ora, Parigi 2011, che viene continuamente frustrata: il ristorante da aprire, oggetto valore di un racconto amaro e contemporaneo, incontra prima l'ostacolo dei problemi economici, poi la minaccia dei creditori e degli strozzini. Se la parte di responsabilità di Yann è oggettivata nel narrato (egli si indebita estremamente per inseguire il suo obiettivo), è però la macchina sociale che lo condanna a più riprese: i no, costanti a ogni livello, si dispongono trasversalmente per tutti gli strati, dagli agenti della sicurezza al venditore di scarpe. Non solo i potenti, ma anche le persone 'come lui' negano aiuto, la società è già disposta e quindi immobile, è una società fatalista.

Dopo la separazione tra Yann e Nadia, con questa che va in Canada alla ricerca di lavoro, il giovane chef affronta la vita con il figlio di lei Slimane (Slimane Khettabi) in attesa del trasferimento, intavolando il più archetipo dei rapporti cinematografici, quello adulto/bambino: tra affetti e incomprensioni Yann, al contrario dell'ambiente circostante, adotta un figlio 'spurio', non suo, offrendosi in positivo all'altro. Ma la recessione porta la regressione: il sogno di Yann va all'indietro, dai lavori per l'apertura del ristorante (sempre la 'costruzione') al suo affido coatto ad altri, fino alla vita in una stanza angusta vendendo frutta per guadagnare. Gli oggetti primari acquistano valore simbolico, cibo e banconote: prima si contano scherzosamente, poi si rubano, in ogni caso il denaro domina la messinscena e sostituisce gradualmente il sogno, l'ideale. Anche dal punto di vista etico, l'evoluzione è spietata: l'ostilità generale provoca la commovente oscillazione del protagonista, dal divieto di rubare (imposto a Slimane) fino alla necessità del furto. Da una parte la lente concentrata sugli estemporanei 'padre e figlio'; dall'altra, sempre sullo sfondo, i crudeli paradossi del sistema che stringono il protagonista in un accerchiamento kafkiano, come dimostrano le prescrizioni della legge sui minori. 'Eroe' della crisi e del contemporaneo, Yann è eroico proprio perché non si arrende a questi paradossi, tenta di aggirarli.

Nell’ultimo segmento, infine, seguiamo il viaggio dei due in cerca della donna scomparsa. Il destino di Nadia, su cui la sceneggiatura moltiplica i punti interrogativi, è decisivo per l’ultimo obiettivo possibile: non più il ristorante, non più guadagnare, ma ritrovarsi, stare insieme. Si è ormai scivolati nell’illegalità, è avvenuto lo slittamento delle ambizioni: il punto finale è solo la ricongiunzione, a quanto dato vedere sullo schermo. Incontro e intreccio di tanti temi diversi, Une vie meilleure è percorso da una riconoscibile trama visiva: basti notare le corrispondenze esterne nella filmografia del regista (il primo “bacio violento” Yann/Nadia come i baci di Les Regrets, film molto lontani ma uniti dal pathos, dalla forte passione); le corrispondenze interne nel corso del film (l’abbraccio nel letto iniziale / l’abbraccio plastico finale);  le singole scene magistralmente chiuse in sé stesse, tra tutte il piano sequenza nel ristorante avviato: Yann lo guarda (ralenti) e vede cosa sarebbe potuto essere, realizzando la crudeltà dell’ipotesi alternativa. Tutto ciò, grazie anche alla co-sceneggiatrice Catherine Paillé, non è didascalico né saccarifero, semplicemente accade: l’abbraccio finale tra madre e figlio, con il lungo indugio da parte della prima che lo mette in dubbio, sfiora il grado zero della retorica. Cédric Kahn, autore personale di film tutti diversi, firma un atto di sfiducia nei confronti della società occidentale: non trovi lavoro, lo Stato non ti sostiene, non puoi tenere un bambino neanche per aiutarlo. I sogni degradano in soldi per pagare l’affitto. Asciutto e provocatorio, senza timore di dirlo, uno dei maggiori film della crisi degli ultimi anni.