TRAMA
In un paesino della Polonia, Jacek vive la sua vita sognandone un’altra, all’estero. Sua sorella è l’unica a dargli man forte. Anche quando, dopo una tragica caduta sul cantiere dove lavora per costruire la statua del Cristo più alta del mondo, non sarà più lo stesso.
RECENSIONI
Già Orso d’Argento per la regia nel 2015 con Corpi, Szumowska torna a Berlino nel 2018 e ne vince un altro (gran premio della giuria).
Di nuovo il suo cinema parla di corpi e di spettri ma, stavolta, lo spettro più grande è quello politico e sociale; che si fa corpo, si fa volto: quello sfregiato e ricostruito di Jacek (Mateusz Kosciukiewicz) con la prima operazione di trapianto facciale del Paese (realmente avvenuta nel 2013). E si fa statua, quella del Cristo più grande del mondo (realmente edificata a Świebodzin), che abbraccia l’orizzonte sul modello di Rio, ma battendolo in altezza.
La preoccupazione del guadagnare qualche metro di cielo in più spazia dalla segretezza del confessionale, in cui il prete indaga e chiede dettagli, a questa enorme statua che nel film benedice, tuttavia, il lato sbagliato della città. La regista, a sorpresa, tenendo salde le redini del suo black humour, dopo aver inscenato l’imbarazzo dei prelati dinanzi a un simile errore, volta la faccia del Cristo verso un altro punto cardinale, scardinando la realtà con la finzione, sferzando il bigottismo a suon di ironia, cercando un antidoto nel sorriso. «Solo l’umorismo ci può salvare», afferma (cfr. Pressbook del film) e parla di umanità, nel senso più ampio, e insieme e soprattutto del suo popolo, che ama e che critica, di una Polonia che, forse, ricordiamo associata alla commedia solo pensando al Vogliamo vivere! (To be or not to be, 1942) di Lubitsch, ovvero a un film statunitense. «Il cinema polacco, finora, non vanta molte commedie che sono state apprezzate all’estero» continua la regista. Forse perché c’è poco da ridere, in generale, nell’odierna Europa che, tra scetticismo e sovranismo, trova proprio in Polonia un esempio di democrazia illiberale (risale, inoltre, allo scorso gennaio 2019 il gravissimo episodio dell’omicidio di Pawel Adamowicz, sindaco di Danzica, pugnalato sul palco davanti alla folla, gesto subito ricondotto dalla stampa locale, e non solo, al clima di odio e ostilità che alimenta la politica del Paese).
Ed è qui che si colloca Jacek: nel vuoto che si genera tra il bisogno di restare e quello di andare via, tra l’amore davanti e una famiglia disfunzionale dietro - molto dietro, in una periferica arretratezza-; tra la quiete della natura, della campagna, e i Metallica a tutto volume. Quel vuoto si materializza in un cantiere poco sicuro, fra operai islamici sui quali chiudere un occhio (in quanto islamici) e una tragedia su cui chiuderli tutti e due, fingendo che Jacek non sia vivo per miracolo. E che il suo nuovo volto non sia invece un miracolo della scienza: apprezzato solo da qualche pubblicitario e dalla tv che si nutre di storie, sostenuto solo da sua sorella, Jacek è ormai un estraneo anche per sua madre che propone di risolvere tale problema con un esorcismo.
Al suo settimo lungometraggio e a tre anni dal precedente Corpi, con Un’altra vita (Twarz,“volto”) Szumowska tocca più a fondo i poli del suo cinema: quello politico e quello intimistico. La critica al presente è ormai uscita dallo sfondo e vive sullo schermo dichiarata, schernita come l’unica cosa veramente da esorcizzare, con la capacità, anche stavolta, di non scadere nella vuota polemica o nel cinismo. Anzi, più vicina al cuore dei suoi personaggi, la regista ritrae la poetica bizzarria di questo Wonder di campagna, che in fondo con i suoi gilet thrash era già un diverso, con un tratto lieve, fuori dal mondo, assicurato dalla fotografia azzurro-verde di Michał Englert che blocca il presente nella distanza dai sogni, nel riconoscimento e disconoscimento dell’amore che avviene sempre sullo stesso ponte, nella forza e nell’ingenuità di un metallaro polacco che non sembra trovarsi poi male in un altro volto, anche se nessuno lo ama più, a parte sua sorella. Forse, è solo che c’è bisogno anche di un’altra vita, appunto.