UN’ALTRA CARTOLINA DA CANNES (27/05/2017)

Pare che a Cannes nessuno ricordi, in tempi recenti, un concorso peggiore di questo. E a confermare il trend negativo è un altro titolo sul quale si puntava molto alla vigilia, A Gentle Creature di Sergei Loznitsa. Tratto liberamente da La mite, un racconto di Dostoevskij, è un apologo in cui una donna senza nome, dopo essersi vista respingere un pacco diretto al marito incarcerato, si mette in viaggio alla volta della prigione per comprenderne le ragioni: finirà con lo smarrirsi in un labirinto burocratico, col vivere un’odissea in una sorta di dimensione a parte, un mondo senza regole in cui violenza, sopraffazione e malaffare regnano e nel quale, il finale lo suggerisce, forse rimane intrappolata in loop. Una prova opaca, ma che potrebbe trovare dei sostenitori in giuria, non fosse altro che per la riflessione sulla Russia odierna (il tema fa sempre gioco ai Festival) e per l’innegabile caratura dell’impianto visivo (anche se il regista riesce a rendere estenuante persino una parentesi onirica fascinosissima).
Anche Rodin, il film di Jacques Doillon, ha avuto un’accoglienza freddissima, tanto che la proiezione stampa si è chiusa con l’urlo di un giornalista spagnolo: «Questo è cinema vecchio!»
Non mi sento di essere così precipitosamente liquidatorio.
Negli interstizi del suo lavoro, in mezzo alle sue statue, al suo plasmare la materia, Rodin vive e ama. L’emozione dell’uomo vibra tutta in quei busti, nel portone che rappresenta i cancelli dell’inferno che va componendo (e che mai terminerà), nell’ossessione artistica di un’esistenza (la statua di Balzac), in quel turbine di sculture/ work in progress che non se la si sente di abbandonare, consegnare. Per le quali non si rassegna a dire la parola fine. La passione amorosa, il sesso, Camille Claudel e le altre donne, il desinare, gli incontri con gli artisti, le contrattazioni coi committenti, sono ombre proiettate sullo sfondo dalla luce suprema dell’arte che illumina tutto il percorso dello scultore. E infatti il film è praticamente rinchiuso nell’atelier dell’artista: non si scorge un mondo, fuori da quella dimensione di creatività incarnata. Tutto è sudore, tormento, ostinazione. E parimenti ostinato è il girare di Doillon, il suo combattere (vincendola solo a tratti) la battaglia col format del biopic: nella tenzone l’autore fa di Vincent Lindon il corpo-tramite di uno smaniare artistico nel quale si riconosce, icona dello struggimento creativo incastonata in una messa in scena granitica, esaltata dai chiaroscuri di un’epoca. Un film impegnativo che, visto fuori dal carrozzone festivaliero, forse sarebbe stato meditato di più.
Mentre si tirano le somme in attesa del verdetto, val la pena sottolineare come la rappresentanza statunitense (quattro titoli) è stata l’unica a non sfigurare. A parte i già detti Haynes e Baumbach, si aggiungono la bella prova di Sofia Coppola, The Beguiled (forse il titolo più godibile dell’intera selezione e tessera coerentissima di un percorso autoriale cosciente fino all’autodenuncia) e lo sperimentalismo adrenalinico del tutto-in-una-notte di Joshua e Ben Safdie, Good Time, con un magnifico Robert Pattinson (titoli sui quali si tornerà, ça va sans dire).
Discorso a parte merita L’amant double di François Ozon, per chi scrive il migliore in gara. Quante probabilità ha di portare a casa qualche premio? A mio avviso pochissime: classico titolo spacca-giurie (ma Almodovar potrebbe spingerlo), è l’Ozon più giocoso degli ultimi anni, il più disinibito, il più provocatorio. Ci fosse stato Frantz in concorso, in questo deserto avrebbe avuto vita facile, ma questo film radicalmente double-face – che strizza l’occhio a un drappello di registi, non solo a De Palma – l’ampio consenso se lo può scordare, il francese riportando tutti i discorsi e le riflessioni su un piano che a tanta critica (e a molti giurati, c’è da giurarci) non interessa affatto: quello del cinema. Figuriamoci.