Drammatico, Recensione

UNA VITA TRANQUILLA

TRAMA

Rosario è emigrato in Germania, ha sposato una donna tedesca, ha un figlio piccolo e fa il ristoratore. Tutto rischia di crollare quando riceve la visita di un ragazzo che, insieme al suo collega, chiede ospitalità per qualche giorno.

RECENSIONI

Una vita tranquilla è “un film con Toni Servillo”. Presentata al quinto Festival di Roma, la pellicola di Cupellini a livello tecnico non aderisce completamente alla categoria: è infatti divisa in due parti parallele, con montaggio alternato, dove la prima segue l’attore campano e l’altra espone le vicende di Diego (Marco D’Amore) ed Eduardo (Francesco Di Leva). Nella sostanza, però, Servillo non è sempre in scena ma resta il master indiscusso dei fatti narrati. A lui si incolla la cinepresa quando, nelle riunioni complessive dei personaggi, l’interprete in primo piano può sempre sorridere, accigliarsi, incupirsi per offrire una “espressione significativa”. A parte questo, si tratta del classico “ritorno del figlio”: sconosciuto entra in un cosmo chiuso e funge da grimaldello, lo sabota e fa esplodere il rimosso. Il nocciolo è il rapporto padre/figlio: con lontano riferimento alla cronaca (la migrazione della mafia italiana in Germania), abbiamo una paternità interrotta che si ricostituisce e, dal momento del re-incontro, è subito a un bivio: riprendere definitivamente o esplodere del tutto. Con il terzo polo di Eduardo e altre figure di contorno.

Nella struttura semplice, non mancano alcune linee stimolanti: per esempio la “mafiosità” che ti rincorre, come l’attitudine al comando che slitta da un settore all’altro (Rosario da capomafia diventa capo di un ristorante e lo gestisce con lo stesso piglio autoritario, come il dominus di una cosca). Oppure i dubbi sulle reali intenzioni dei personaggi, da Diego (è alla ricerca di vendetta?) alla moglie di Rosario (quanto sa veramente?). Il vero problema è cosa accade sul piano visivo e narrativo. Qui iniziano i limiti, ovvero una vasta serie di suggerimenti a partire dalla prima scena: Rosario si esibisce nell’uccisione di un cinghiale, freddato al primo colpo e da lunga distanza (non è solo un ristoratore). Poco dopo, appena riceve la visita, si imbastisce un dialogo sulla convivenza impossibile tra aragoste e cinghiale nello stesso pasto (padre/figlio, presente/passato non vanno insieme). E così via.

Il film medio italiano è più movimentato del solito, e sottolinea un discreto senso del ritmo, ma questo imboccare chi guarda non si rivela affatto coraggioso, anzi: lancia spunti e li rende subito significativi, respinge il sottinteso e ci tiene a chiarire tutto. Cupellini, dietro la scorza della malavita, parla del solito tema nazionale (La Famiglia), non conosce non detto né sentimenti trattenuti: in questo senso il confronto finale Rosario/Diego in auto, scandito dalle urla, è una crisi di famiglia esattamente come le tavolate di Ozpetek. A contorno, c'è anche l'indugio nella macchietta (la 'napoletanità' di Eduardo) e almeno una scena totalmente sballata: l'invettiva 'contro dio' davanti al prete morente, esempio sfacciato di esplicitazione del pensiero interiore e svolta di registro inverosimile rispetto al contesto realista. Finale banalmente circolare, la migrazione ricomincia. Per questi e altri motivi, accostare il film ad A history of violence di Cronenberg è assolutamente impossibile: le trasformazioni del cineasta canadese (protagonista, corpo, film) non ci sono, non c'è mistero, tutto è esposto dall'inizio e chiaro dopo venti minuti.