TRAMA
New York: Klute, ex-poliziotto, è ingaggiato come detective privato per indagare sulla scomparsa di un uomo. Conosce Bree, una prostituta minacciata da un maniaco sessuale.
RECENSIONI
Non è il thriller poliziesco il protagonista dell’opera n° 2 di Pakula, tanto meno il Klute del titolo: è Bree, la squillo con cui Jane Fonda ha vinto l’Oscar. Un carattere complesso su cui regista ed interprete operano un superbo scavo psicologico, una donna che trova la zona franca e profilattica per sopravvivere in un’illusoria autodeterminazione, conquistata con il “dominio” delle debolezze dell’altro sesso. Con piglio nervoso ma scaltro e deciso, insoddisfatto e al contempo distaccato come se fosse appagato, Jane Fonda disegna un carattere che, abitando più di una dimensione, non è stanziale in nessuna di esse. Dal canto suo, Pakula sfasa magistralmente anche il taglio filmico, al contempo realistico e anticonformista nel panorama statunitense, per un noir colmo di pause riflessive e sguardi fissi sulle espressioni degli attori: praticamente non c’è azione se non mentale, dell’anima, di cinema. Tali stilemi servono anche una pregnante digressione sul degrado (sub)urbano, sulla solitudine (tema centrale anche nell’opera precedente e d’esordio di Pakula, Pookie), sullo scontro intimo fra necessità e virtù, convenzioni e deviazioni, e sull’essere umano tout-court, cui Pakula riserva uno sguardo di pietà, senza falsi e facili moralismi. In questo senso, è da citare almeno la sequenza della fuga disorientata di Bree nel Night che, senza dimenticare la perizia del commento musicale di Michael Small, è notevole per significante e significato, allegoria e sua forma figurativa. Un capolavoro che condensa il miglior cinema di Pakula a venire, quello in cui (concessioni commerciali permettendo) opera sul femminino, il materiale umano, il thriller sentimental-psico-sociologico. Circola una scellerata copia Tv che dura 108’ anziché 114’ e omette la scena con l’indizio per trovare l’assassino.