TRAMA
Erland e May, Sven-Erik e Karin. Due coppie di mezza età, moderatamente felici. Finché la passione non travolge Erland e Karin. Per evitare che la cosa degeneri, Erland ha una proposta.
RECENSIONI
Scene da due matrimoni sereni, sonnolenti, "esemplari" (Erland e May tengono un corso parrocchiale su come scongiurare le crisi di coppia), turbati da un'attrazione che si manifesta in modo dapprima impercettibile (il dialogo timido e reticente fra Erland e Karin alla festa, in cui il regista sfrutta al meglio la simmetria verticale dell'immagine e la profondità di campo), poi sempre più marcato (il notturno vagabondare di Karin), fino alla deflagrazione (gli incontri nel parcheggio del supermarket e in chiesa: il primo brutale ed ellittico pur nella sua dimensione marcatamente simbolica, sottolineata dalla "caduta" della frutta che ne segna il confine, il secondo così essenziale e pudico da scongiurare ogni sospetto di gratuita blasfemia). Poi la ragione prende il sopravvento, e le cose, ovviamente, peggiorano: la crisi scoppia fuori campo, lontano rispettivamente dagli occhi e dalle orecchie dello spettatore, i personaggi cercano di ricomporla inventando una sorta di gioco di ruolo (le regole troneggiano, novella tavola della legge, in cucina) che si rivela un meccanismo perfetto per la costruzione di ulteriori tensioni (la sveglia a colazione), nuove barriere (le telecamere a circuito chiuso che uniscono e dividono Erland e Sven-Erik), rinnovati antagonismi (i kart, le pantofole). Finché gli individui apparentemente più fragili e indifesi non trovano il coraggio di uscire dal gioco, tramite un taglio netto o un suicidio simbolico: ai "sopravvissuti", veri sconfitti, non resta che calarsi di nuovo (come fosse la prima volta: con lo stesso imbarazzo, lo stesso senso d'inadeguatezza) negli eterni ruoli coniugali, i soli che la casa (di bambola) possa convenientemente ospitare. Bergmark ha pietà delle sue cavie, ma non per questo vuole nasconderne i tratti meno edificanti: la vigliaccheria di Erland, l'ipocrita condiscendenza di May, la superficialità di Karin, la debolezza e la scarsa lucidità di Sven-Erik (eredità di un passato oscuro - alcolismo? droga? - su cui il film giustamente non si sofferma) sono ingredienti essenziali alla riuscita della pellicola, che procede in felice bilico tra commedia macabra e dramma intimo, con qualche digressione non proprio necessaria (la figura del prete) e qualche sottolineatura grottesca eccessivamente marcata (prima fra tutte quella che campeggia sulla locandina). Il risultato finale è comunque solido, lieve e per nulla consolatorio, e viene da chiedersi: quale regista italiano di oggi potrebbe raccontare una storia come questa con la stessa essenzialità, la stessa assenza di proclami e scorciatoie, l'identica ripulsa del glamour e della caricatura da due soldi?