TRAMA
Settembre 1973. L’Uruguay è sotto il controllo di una dittatura militare. Il movimento di guerriglia dei Tupamaros è stato schiacciato e smantellato da un anno. I suoi membri sono stati imprigionati e torturati. In una notte di autunno, nove prigionieri Tupamaro vengono portati via dalle loro celle nell’ambito di un’operazione militare segreta che durerà 12 anni. Da quel momento in poi, verranno spostati, a rotazione, in diverse caserme sparse nel Paese e assoggettati a un macabro esperimento; una nuova forma di tortura mirata ad abbattere le loro capacità di resistenza psicologica.
RECENSIONI
La storia del premier uruguayano Pepe Mujica, passa attraverso un periodo fatidico, quello che, assieme a due compagni tupamaro, trascorse in isolamento: «Dato che non li possiamo uccidere, facciamoli diventare pazzi». Non una semplice reclusione, dunque, ma una tortura protattasi per 12 anni: il film di Álvaro Brechner racconta allora del buio, dei tentativi disperati di comunicare (il bussare al muro, la creazione di un codice che consentirà ai prigionieri persino di giocare a scacchi), dell’aggrapparsi disperato all’immaginazione, degli elettrochoc, dei tentativi della dittatura di carpire informazioni. E anche delle piccole conquiste (il quaderno e la penna: che voleva dire riaprirsi alla scrittura, e quindi al pensiero). Fino alla liberazione.
Un film civile che si dilunga troppo e che al Festival di Venezia dialogava naturalmente con il documentario El Pepe, una vida suprema di Kusturica. L’impianto drammaturgico è semplice, lineare, e la scrittura, a tratti, inciampa in un poeticismo un po’ melenso nel ricostruire una fase storica, dominata da un’autorità violenta e spietata, supportata da una burocrazia paradossale. Si mostra l’inferno dal quale Mujica proviene quasi sottintendendo una spiegazione del suo approccio politico futuro: la visione pragmatica della realtà delle cose, di ciò che va considerato davvero importante, di ciò che si può ritenere superfluo. Il respiro è volutamente popolare e retorico e lo stesso ricorso all'ironia si spiega col tentativo del film di proporsi, didascalicamente, come strumento didattico per raccontare a un pubblico, il più vasto possibile, la sofferenza nella quale si è forgiata una figura straordinaria.
