TRAMA
Al leader e fondatore di un quartetto d’archi prossimo a celebrare i 25 anni insieme vengono diagnosticati i primi sintomi del Parkinson. In vista del suo addio l’intero gruppo va in crisi.
RECENSIONI
Nonostante l'atmosfera crepuscolare Una fragile armonia (A late quartet) non è un film sulla terza o quarta età, né sulla malattia. Porta in scena un anziano violoncellista, da poco vedovo, costretto dalla malattia a dire addio alla musica, e tre persone di mezz'età chiamate dal cambiamento ad un bilancio delle proprie vite. Dunque un film sui bilanci, ma prima ancora sulle relazioni umane. Quasi un dramma da camera fortemente centrato sulle dinamiche famigliari, giacché i membri del gruppo sono a tutti gli effetti una famiglia, di fatto e simbolicamente. La pellicola si nutre di dialoghi, rivelazioni e chiarimenti, sterzate e fratture nei rapporti.
L'improvvisa perdita di un elemento cardine del quartetto - quel nucleo che ha riempito in tutti i sensi l'esistenza e l'identità dei suoi componenti - innesca un processo dirompente che sconvolge da ogni punto di vista la fragile armonia indispensabile per suonare insieme per 25 anni vivendo in una simbiosi fatta di intesa, fiducia e dedizione reciproca, compromessi e sacrifici. Tutti hanno rinunciato a pezzi di vita estranea alla musica, alla genitorialità ed al tempo da dedicare a se stessi, ma anche a molte ambizioni personali. E se la presenza del più anziano del gruppo garantiva equilibrio e coesione, la notizia del suo allontanamento risveglia insoddisfazioni, insicurezze e pulsioni dimenticate. In modo forse troppo dirompente per una sceneggiatura misurata il tappo salta e tutto quel che potrebbe accadere ai protagonisti, immaginando praticamente ogni combinazione possibile, accade.
Il secondo violino dà voce alle proprie frustrate aspirazioni e scalpita per guadagnare finalmente il ruolo di primo piano che non ha mai avuto; non trovando l'appoggio sperato nella moglie manda in crisi il loro rapporto con un tradimento lampo presto scoperto. La figlia della coppia, anch'essa musicista, intreccia una relazione dal sospetto odore compensatorio-aggressivo con un altro membro del quartetto, dell'età dei suoi genitori ed un tempo innamorato di sua madre. E questo lacera anche il resto dei rapporti all'interno del gruppo. In questa stessa figlia esplode poi il rancore verso i genitori da sempre assenti per gli impegni lavorativi, mentre sua madre sente di perdere la figura paterna rappresentata dal padre simbolico ora malato.
Un po' troppo, forse. E nemmeno nuovissimo. Ci sono però un paio di ragioni valide per sottoporsi alla visione. La prima è la delicatezza del tocco con cui il regista - premiato documentarista - affronta lo snodarsi dei drammatici confronti tra i protagonisti ed inserisce le dinamiche emotive all'interno di una riflessione non didascalica sul rapporto tra arte ed artista e sul potere della musica. La seconda ragione è costituita dalla prova fornita dagli interpreti, che conquistano e convincono con la naturalezza del talento. La dignitosa compostezza con cui il personaggio di Christopher Walken accetta la scoperta del Parkinson e la necessità ineluttabile di rassegnarsi ad una nuova vita, più da spettatore che da protagonista, è resa sempre credibile dalla grande prova dell'attore. Misurati ed efficaci anche Catherine Keener e Mark Ivanir, mentre Philip Seymour Hoffman è, banalmente, fuori discussione.