TRAMA
Vincenzo e Maria: cronaca di un amore, tra abietta logica mercantile e dolore profondissimo.
RECENSIONI
La notte e il giorno, il sole e la pioggia, la metropolitana in principio, il ristorante poi, il centro massaggi cinese, lo studio del dottor Minerva, le fermate degli autobus, la strada, la casa della facoltosa coppia omosessuale, il giardino pubblico nel finale, gli appartamenti che cambiano… Vincenzo e Maria transitano continuamente – da soli o insieme – in Una famiglia di Sebastiano Riso, classe 1983, qui alla sua opera seconda dopo Più buio di mezzanotte. Sono corpi incollocabili, Patrick Bruel e Micaela Ramazzotti, mentre la macchina a mano ne segue le traiettorie inizialmente misteriose e pian piano più chiare in una Roma conciata come scenario d’astratto noir. Una storia che procede per gradi, anche se sostanzialmente scissa tra un prima e un dopo, tra ciò che nasconde e poi svela, tra le identità dei personaggi che progressivamente acquisiscono nuovi pezzi mentre l’umore del film amplifica la cupezza disperata e crudele. Non sappiamo molto di ciò che sono stati, ma l’uno e l’altra hanno un modo diverso di stare al mondo. Insieme da tempo, per uno sguardo nato sulla spiaggia di Ostia, lei italiana, lui francese, lei più fragile, lui più forte, e infine più impenetrabile, volontà che scavalca e schiaccia quella di Maria, da lui drammaticamente soggiogata. Perché sembrano sentimento dolce in un mezzo pubblico che li riporta a casa; sono pelle a contatto in una cena fuori mentre Vincenzo le dice che è più bella quando sorride; perché fanno sesso, tanto, ma il desiderio (quello erotico e quello di formare Una famiglia) è ciò che più li separa: Vincenzo fa soldi nel mercato nero di bambini, Maria gli presta il corpo procreatore, l’ha fatto più volte e li ha sempre ceduti a coppie sterili. Lei ne è ormai devastata, rimane incinta un’altra volta, il suo uomo le promette che sarà l’ultimo affare…
In concorso all’ultima Mostra di Venezia, Una famiglia è stato da pochi – con argomentazioni circostanziate – stroncato, tanti altri hanno voluto invece irriderlo, massacrarlo, ridicolizzarlo. Un po’ è il gioco – triste – che ricorre nei festival, ma forse è anche la spia di un problema che una buona parte della critica nostrana ha con certi registi italiani più strutturati, con una loro idea (e pratica) di cinema: opinabile, senz’altro, ma precisa, individuale, per certi versi poco conciliante e radicale (mettiamo un Paolo Franchi e ciò che successe intorno a E la chiamano estate, pensiamo a Luca Guadagnino…). Quello di Riso è un cinema che disseziona, che fa male, c’è la superficie e segue poi l’affondo nella carne delle cose; c’è una consapevolezza evidente in questo, forse ancora incontrollata, tanto da dilatarsi in alcuni momenti nella resa estetica (il Riso che conosce bene il mezzo tecnico, o che all’improvviso, in una scena che deve dire senza essere mostrata, si allontana dai suoi personaggi per poi tornarci – avveniva nel suo film precedente, tra il protagonista e il personaggio interpretato da Pippo Delbono, e si ripete qui – è quello meno interessante e più didascalico, se non inutile). Ma è il non dare scampo l’esercizio di maggiore forza narrativa che questo giovane autore è capace di imprimere a quest’opera, nonostante certi limiti di scrittura, lo spreco di alcuni personaggi: è il praticare l’abisso insieme ai suoi protagonisti, è il lutto che come esalazione venefica finisce per vestire tutti di nero, è il danno che prima o poi incide con le sue ferite inemendabili padri e madri, reali o in potenza. Ed è il vagito, infine, l’unico in grado di svegliare il nuovo giorno. Era ispirato a una storia vera Più buio di mezzanotte; a più storie, invece, lo è Una Famiglia. Un periodo di ricerche denso, reso possibile anche grazie alla collaborazione del Procuratore Raffaella Capasso, impegnata in casi di uteri in affitto e adozioni illegali, fenomeno che in Italia è più diffuso di quello che si possa pensare. Ma il regista catanese ha dimostrato anche in questo film come i temi – sociali, politici e culturali – che costituiscono l’ossatura dei suoi racconti non possano, per lui, non farsi poi forma altra, terreno narrativo più complesso. Alla sua seconda interpretazione per Riso, Micaela Ramazzotti ritrova un regista che la sa dirigere molto bene, tra coloro che la capiscono di più, in grado di lavorare con cognizione dunque anche sui certi suoi limiti o cliché. E sì, per concludere, ha ragione il personaggio interpretato da Ennio Fantastichini: lo sguardo di Patrick Bruel fa paura.