TRAMA
Indocina francese, 1931. Una vedova con due figli è rovinata dall’acquisto di un terreno in coltivabile, ma passa al contrattacco: chiede aiuto agli abitanti del villaggio per costruire una diga personale e impedire l’annuale inondazione del Pacifico.
RECENSIONI
Rithy Panh debutta nella fiction con un film di frontiera tratto da Marguerite Duras. Il melò coloniale contiene molti conflitti, etnici e parentali ma non solo, il cui apparato figurativo è subito affermato: nella palude di Kam la terra si ribella all’ingiustizia e sbarra l’accesso ai suoi doni primari (l’acqua è salata e il suolo puzza di zolfo), mette in partenza i suoi ospiti ma non li scioglie dal legame tellurico. “Questa terra resta nostra”, si afferma nell’assemblea dei nativi: il senso di appartenenza, però, si scontra con l’interesse delle relazioni umane (simboleggiato da messer Jo) all’insegna della legge che nella colonia tutto è mercanzia. Una messe di temi infuocati, dunque, ma imprigionata dall’inarrestabile ricorso al testo: tutti parlano molto, la musica extradiegetica sottolinea, il quadro visivo è suggestivo quanto didattico. Con un occhio alla famiglia in microcosmo (una proprietà privata con crudeltà annesse), facilmente ripiegato sulla Huppert, il regista cambogiano si limita a gettare solo le coordinate di un intreccio complesso. Momento memorabile: il ballo dei fratelli, una confessione firmata di attrazione reciproca. Scena scult: la morte del granchio come correlativo oggettivo della voglia di riscatto della protagonista. La sorpresa: Astrid Berges-Frisbey. Un dubbio finale: la reale portata del testo di riferimento, che non abbiamo letto ma rischiamo di non avere rimpianti.
