Drammatico, Recensione

UNA CASA ALLA FINE DEL MONDO

Titolo OriginaleA Home at the End of the World
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2004
Durata95'
Sceneggiatura
Tratto dadall'omonimo romanzo di Michael Cunningham
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Negli anni 60 nella periferia di Cleveland Jonathan e Bobby sono amici, confidenti e poi amanti. La vita e il destino li rivogliono insieme negli anni 80 a New York: Bobby si trasferisce nella casa che Jonathan divide con l’amica Clare di cui diviene amante…

RECENSIONI

So di attirarmi gli strali di Manuel Billi che non perde occasione per sottolineare (giustamente) che film e romanzo sono due cose diverse e che l'uno non deve essere giudicato in confronto all'altro. Tutto vero ma, lasciando agli altri la valutazione prettamente cinematografica, sento che non sarà tanto dannoso operare un parallelo con lo scritto, tanto per analizzare le scelte operate dall'autore Michael Cunningham in sede di sceneggiatura, posto che dopo tre romanzi molto belli (Una casa alla fine del mondo, Carne e sangue, Le ore), dopo aver vinto tutti i premi letterari più prestigiosi, egli si avvicina per la prima volta a questa ardua prova firmando l'adattamento per lo schermo del suo lodatissimo esordio. Ian Mc Ewan, nella conferenza stampa di ENDURING LOVE ha detto che l'esperienza di sceneggiare un proprio testo l'ha fatta una sola volta (LETTERA DA BERLINO diventò il mediocre THE INNOCENT di Schlesinger) e che è un errore che non ripeterebbe più (Scrivere una sceneggiatura da un proprio romanzo è come uccidere un proprio figlio, allora meglio uccidere quelli degli altri o farsi uccidere i propri da qualcun altro - ha affermato): sarebbe interessante sapere qual è il pensiero di Cunningham in proposito stante il fallimentare esito di questa riduzione. Ma andiamo con ordine.
UNA CASA ALLA FINE DEL MONDO è opera letteraria complessa che si fonda sui resoconti incrociati di quattro voci narranti, quelle di Jonathan, Bobby, Clare e Alice, la madre del primo: più che l'evolversi degli eventi, ciò che emerge maggiormente dalla lettura dei racconti che i personaggi fanno in prima persona è la scoperta della diversa prospettiva di cui si fanno portatori nel valutare tali fatti. Il romanzo espone una vicenda molto semplice che non costituisce assolutamente il fulcro dell'opera: questo si ritrova nel differente modo in cui i vari avvenimenti vengono assorbiti e interpretati dai quattro che, nel progredire tramico, rivelano il loro differente modo di pensare e di vedere le cose e se stessi. Si scopre quindi che il legame più forte, fraterno e complementare - al di là del sesso e dell'amore - è proprio quello tra Jon e Bobby. Che Clare è cosciente sempre (sottolineo: sempre) della distanza che la separa non solo da Jon ma anche da Bobby che ama ma di cui riconosce e sottolinea i limiti. La madre di Jon è una donna fredda e insoddisfatta e, pur instaurando con Bobby un legame duraturo, continua a guardarlo con sospetto fino all'ultimo. Della complessa rete di rapporti che lega i personaggi, nel film non v'è alcuna traccia: la piatta ottica unilaterale produce l'inevitabile conseguenza di un meccanico e nudo (quindi insoddisfacente a tutti i livelli) racconto degli avvenimenti (che sono poca cosa), senza alcun tentativo di sondaggio delle intenzioni dei personaggi. Ma c'è di più. Cunningham, onde semplificare ulteriormente, elimina ex abrupto il personaggio di Erich: Erich è la persona con cui Jonathan fa solo ed esclusivamente sesso e che rappresenta in maniera evidente l'incapacità del giovane di avere legami sentimentali stabili. Anche Erich alla fine veniva coinvolto nel progetto della Casa che dà il titolo all'opera ed è lì che trascorre gli ultimi momenti della sua vita prima di morire di AIDS. Erich è tassello raffinatissimo nella costruzione narrativa del romanzo poiché è il tacito elemento che suggerisce ellitticamente al lettore la possibile malattia e la prossima morte di Jon (il volume si chiude senza che nulla si sappia su una sua possibile seriopositività). E' evidente che, eliminando questo personaggio, il nodo della malattia (che doveva essere necessariamente affrontato) non può che esplicitarsi e ciò avviene nella maniera più banale e sbrigativa: sulla pelle di Jonathan. Il risultato è un film poco elaborato, composto da bruschissimi passaggi in cui non solo non si mette mai degnamente a fuoco un personaggio ma in cui, quel che è peggio, si procede per quadretti insipidi e scollegati. Pensiamo al padre di Bobby (liquidato, come un buon terzo del romanzo, in poche battute): il confronto con il figlio fatto in punto di morte era uno dei passaggi chiave del libro perché delineava, in uno straziante dialogo, la problematicità del loro rapporto e la pesante eredità psicologica che il vecchio gli aveva trasmesso: nulla di tutto questo c'è in un film che, girato in modo paratelevisivo, affida la ricostruzione d'epoca a una petulante colonna sonora (sottolineata - anche diegeticamente - fino alla nausea), che riduce i caratteri a macchiette (il buon cast fa quel che può) e sembra soggiacere ad un'unica logica: raccontare per immagini l'esile trama di un romanzo per scoraggiare lo spettatore dall'acquistarlo.

L'infrangersi di un libro contro il grande schermo determina sempre un impatto violento. E' come se le settimane di lettura che hanno permesso di costruire un mondo intimo e inafferrabile, si trovassero a fronteggiare una rapida resa dei conti in cui tutto diviene sfacciatamente evidente. Succede anche con "Una casa alla fine del mondo", bel romanzo d'esordio del celebrato Michael Cunningham e brutto film di Michael Mayer. Sceneggiato dallo stesso Cunningham il lungometraggio non puo' che deludere chi ha amato il libro, ma difficilmente accontentera' anche chi non deve vedersela con i fantasmi della propria immaginazione. L'aspetto piu' rivoluzionario del romanzo e' una narrazione in prima persona dei quattro protagonisti attraverso capitoli, intitolati con il nome del personaggio, in cui gli eventi sono filtrati da un punto di vista personale, che spiega in modo diretto stati d'animo e motivazioni. Molto difficile rendere questa molteplicita' di sguardi al cinema, ma la scelta di attenersi solamente ai fatti si rivela fallimentare, perche' non sono i fatti il centro del racconto. Assistiamo cosi' ad una piatta messa in scena che snatura l'essenza letteraria. Ed e' curioso che l'autore dello scempio sia proprio lo stesso Cunningham, che compie scelte di sceneggiatura incomprensibili: elimina interamente alcune parti, ne riporta integralmente altre e ne modifica in modo radicale altre ancora. Il risultato e' un susseguirsi di siparietti sconclusionati in cui si arriva a scene madri senza avere minimamente avuto la possibilita' di capirne il perche'. La sensazione, molto sconfortante, e' di assistere al trailer di un film, in cui ci si immagina che le sequenze abbiano un prima e un dopo succosi e coinvolgenti. Cosa che, invece, non accade mai. Quanto al cast, Colin Farrell e Dallas Roberts si rivelano appropriati nel dare vita a Bobby e Jonathan, Robin Wright Penn e' troppo bella per Clare (e poco incisiva nell'equazione interpretativa "personaggio vitale ed eccessivo = gesticolante") e Sissy Spacek e' per forza di cose inverosimile, nella prima parte, come madre poco piu' che trentenne. Pessimi i costumi, che piu' che evocare un periodo storico (il film si snoda dagli anni sessanta agli anni novanta) lo scimmiottano, dando l'idea di una sagra paesana dedicata al revival del vintage. Fin troppo azzeccata la colonna sonora, bell'involucro di una trasposizione vuota di contenuti e, purtroppo, del tutto deludente.