TRAMA
Un gruppo di amici decide di trascorrere con la famiglia un weekend fuori dalla routine quotidiana, in memoria dell’ex coach del liceo “Cicalino” morto da poco.
RECENSIONI
L’America di Dugan continua a sfornare eterni Peter Pan, pestiferi, demenzialmente sconclusionati, siano adulti o bambini, desiderosi entrambi di abbracciare il divertimento come una formula leggera di regressione, che sospende (si fa per dire) il serioso e poco credibile ruolo della vita.
Muore il vecchio coach “Cicalino”, figura paterna di responsabilità e buon cuore, e la combriccola di (ex)ragazzini, nel ritrovarsi insieme, riscopre quanto ci sia ancora da crescere, quanto il bizzarro nucleo famigliare, rigorosamente incastonato nei più scontati cliché, abbia bisogno di tenersi per mano, di dialogo e spontaneità tra lo schieramento dei piccolini e quello dei “grandi”.
Stando insieme è possibile maturare, adagiandosi sulla convinta retorica della collettività che, tra gli sfottò e le bizzare gag, non perde di vista il messaggio edificante, rigurgitandolo platealmente per rasserenarci che tanto stupidi poi questi bamboccioni non sono.
Forse hanno solo bisogno di un pizzico di attenzione in più.Troppi personaggi, una marea di caratteri sono lanciati in questa mischia "sociale" (e generazionale) che Un weekend per bamboccioni tenta di far funzionare con precise dinamiche nella costruzione del testo, richiamando la sit-com americana, alternando la pochezza delle battute alla salvifica slapstick che in qualche modo distrae dalla legnosità dell'impianto narrativo, disponendo lo sberleffo e il divertito giudizio critico (sul sesso principalmente) tra coloro che osservano e coloro che vengono osservati, delineando figure spesso propense al delirante blackout che catalizza l'attenzione sulla scenata da ritardato del momento, non facendo mancare allo spettatore gli insopportabili innesti sentimentali quasi mai investiti da un ribaltamento dissacratorio, etc
Si cade troppo spesso nel caos, in un'accozzaglia di situazioni poco gestite (e gestibili) che portano a spegnere la funzione tanto cara a Dugan dello sport, della competizione come collante sociale, inevitabile attesa e chiusa dell’intero film.
Un passo indietro rispetto alla strafottenza di Zohan, un’opera così polemicamente sconcia e provocatoria che auspicava in qualche modo una maturazione dell’autore.
Come non detto…
Quinto film insieme di Dennis Dugan e Adam Sandler, quarto in cui Sandler è anche co-sceneggiatore: fra i peggiori, eppure il suo successo ha dato alle stampe un seguito tre anni dopo. Nelle loro collaborazioni c’è spesso di mezzo lo sport ma, in questo caso, le gag demenziali sono sovrastate dal buonismo da commedia per famiglie e dalla retorica sull’american way of life, fino alla scena emblematica in cui gli amici issano la bandiera per il 4 di luglio. L’idea motrice è banale, portata al successo con uno stampo simile da Todd Phillips, Una Notte da Leoni compreso: mettere in film l’essere bamboccioni di amici che si ritrovano da adulti, dopo aver passato l’infanzia insieme. La comicità dovrebbe scaturire dai grown ups (il titolo originale) che tentano di giustificarsi con mogli e prole. La “morale” è urlata e sciorinata in ogni dove, mentre le gag si riducono a scene in cui i deficienti (coppie strane, tipi strani) si prendono in giro o tentano di replicare divertimenti dell’infanzia. Quando il tutto si trasforma in un film “disney” dopo aver inscenato peti e culi al ralenti, sale l’imbarazzo. È imbarazzante anche questa ostentazione, come fosse normale, della borghesia media e danarosa: se qualcuno è in difficoltà, basta avere un amico vincente e farsi dare una mano. Tutto gli si sarebbe perdonato se, almeno, battute e trovate comiche fossero state spassose: si salva solo la scena del balletto in sincrono, con i quattro allupati seduti che allumacano la stangona.