TRAMA
Due gemelli, due vite legate e inseparabili, due personalità completamente diverse. Dominick e Thomas Birdsey sono adulti, hanno sempre vissuto vicini, Thomas ha sempre avuto bisogno di suo fratello. Perché Thomas ha dei problemi. Thomas è malato, è affetto da schizofrenia paranoide.
RECENSIONI
IL PASSATO È SEMPRE PRESENTE
Per quanto sulla misura lunga della miniserie Un volto, due destini è un’opera che si riconduce in tutto e per tutto a quel percorso autoriale di cui Cianfrance ha dato testimonianza in questi anni, dunque un nuovo melodramma a tinte foschissime in cui, in un reticolo familiare soffocante, si disegna la storia di un uomo che si confronta di necessità con le sue radici. Per il protagonista il passato è sempre presente, perché per quanto lo scenario della storia familiare sia in parte da decifrare, schegge e frammenti di essa riemergono, facendosi chiavi di lettura dei drammi attuali: atti decisivi determinano conseguenze anche dopo generazioni («I peccati vecchi hanno l’ombra lunga»), secondo quel concetto di ereditarietà che da sempre attraversa il cinema del regista. Dominick Birdsey, che non a caso porta il nome del nonno (Domenico è lo stigma genealogico), è un uomo disperato, perso in sensi di colpa insuperabili, colpito da lutti che hanno lasciato dietro di sé macerie. Un ritratto complicato dal rapporto col gemello, un doppio che sembra farsi specchio deformato e disinibito (la malattia mentale) della sua stessa condizione. Stephen, il fratello, è una figura quasi cristologica, un uomo che, perso nella suo delirio paranoide, si taglia un arto per espiare violenze e sopraffazioni dell’America guerrafondaia, peccati che vediamo riflessi anche nelle vicende dei Birdsey. Perché Un volto, due destini continuamente oscilla tra il micro della dimensione familiare e il macro della storia recente degli Stati Uniti (la parte attuale è ambientata negli anni 90: domina lo spettro della guerra del Golfo), come se la tormentata ricerca identitaria di Dominick riguardasse simbolicamente conflitti e contrasti della stessa nazione (guerre insensate - il Vietnam in primis -, drammi migratori, oppressione delle minoranze, a cominciare da quella nativa - non a caso, lo scopriremo -, logiche patriarcali).
Ma, al di là delle implicazioni metaforiche dell’affresco, l’opera è anche un complicato coacervo di piste narrative di tenore differente, alcune consacrate a letture desumibili e avallate dai fatti, altre che lasciano presumere sviluppi solo per escluderli categoricamente. La storia familiare dei Birdsey vede nel flusso di parole deliranti di Stephen il rimosso col quale il protagonista non vuole venire a patti? Il gemello è una sorta di coscienza, una sua proiezione senza filtri e resistenze, o un fiume in piena di insensatezze e falsi ricordi? Allo stesso modo è diabolico il modo in cui si adombrano possibili spiegazioni e decifrazioni di traumi, solo per smentirle in seguito, e correggere perversamente le conclusioni automatiche dello spettatore caduto in trappola: violenze domestiche e sessuali, persino incesti, sono ombre che si allungano sulla storia, ma non corrispondono necessariamente agli avvenimenti. Anzi: la rivelazione finale annulla tutte le possibilità più aberranti, riconduce il discorso alla enormità dei pensieri e delle ipotesi che si partoriscono all’ombra del nido familiare.
È proprio in questo giocare con ingredienti ad alto tasso mélo e con le relative aspettative del pubblico che va vista la coscienza della costruzione drammaturgica della serie, il cui carattere romanzesco è sottolineato dal voice over narrante (Dominik e Domenico). Siamo in una tragedia consapevole nella quale il registro veristico è contraddetto da una sorte puntualmente avversa (la maledizione si chiama malocchio), quasi che l’escalation della narrazione, in accumulo di disgrazie, fosse manovrata da un deus ex machina al contrario, pronto a far fallire qualsiasi tentativo di risalita, capriccioso nell’imbrogliare le piste, ritardare i chiarimenti (il diario di Domenico che va perduto), alimentare i dubbi.
In questo orchestrare, esacerbandola, la cupezza dei motivi della storia, Cianfrance si rivela lucidissimo: usa i tempi della serie per dare piena forma ai temi e ai motivi di un racconto vibrante, posto il contributo cruciale di un Mark Ruffalo semplicemente gigantesco e la dolente sonorizzazione creata dalle musiche ambient di Harold Budd (il grande musicista, scomparso lo scorso dicembre, per la prima volta alle prese con uno score originale per una produzione televisiva).