TRAMA
Nels Coxman viene eletto “cittadino dell’anno” nel piccolo paese del Colorado in cui vive. La sua rettitudine avrà un notevole ridimensionamento quando un boss locale gli fa uccidere il figlio credendolo coinvolto in un furto di droga. Sarà vendetta.
RECENSIONI
I remake americani di film europei non sono certo una novità, un po’ più raro che a dirigere la nuova versione sia chiamato lo stesso regista dell’originale; anche in questo caso, però, di precedenti illustri ce ne sono parecchi, basta pensare, per restare ai casi recenti, a Il guardiano di notte diventato Nightwatch per la regia di Ole Bornedal, o al Funny Games rifatto shot-for-shot sempre da Michael Haneke. Il norvegese Hans Petter Moland viene chiamato a dirigere una nuova versione del suo In ordine di sparizione che nel 2014 si era distinto nella selezione del concorso alla Berlinale godendo di recensioni positive e di una discreta distribuzione internazionale. Il nuovo adattamento modifica l’ambientazione, da un piccolo paese della Norvegia a una stazione sciistica delle Montagne Rocciose, ma il cambiamento è quasi impercettibile perché l’atmosfera è molto simile al film di origine, non a caso il direttore della fotografia (Philip Øgaard) è lo stesso. I contrasti cromatici tra il bianco abbacinante dei ghiacci, il buio degli stati d’animo e il sangue che scorre a fiotti contribuiscono ancora una volta a creare un’atmosfera poco rassicurante, dove la quiete è solo facciata. Se la scansione degli eventi procede praticamente identica, con alcune sequenze pedissequamente replicate, il risultato produce un effetto ugualmente straniante e prossimo al grottesco, data la commistione di generi diversi (dal pulp al thriller alla commedia), ma non è sempre ugualmente efficace. Pensiamo alla scelta del protagonista. Liam Neeson (al posto di Stellan Skarsgård) sembra perfetto per incarnare un padre che cerca vendetta per la morte del figlio e lotta senza esclusione di colpi, ma alcuni snodi di sceneggiatura non si adattano molto all’icona che l’attore rappresenta.
Se infatti Skarsgård conservava una vulnerabilità da uomo comune adatta al personaggio, da Neeson non ci aspettiamo alcun tipo di fragilità, difficile quindi vederlo in preda a ossessioni suicide mentre si punta un fucile in bocca, addirittura impossibile pensare che possa assoldare un sicario per compiere la vendetta al posto suo. Per lo stesso motivo cadono nel vuoto alcuni tentativi di ironizzare o sdrammatizzare, pungenti nel prototipo (la battuta del bimbo sulla sindrome di Stoccolma) e invece stonati nella replica. Anche riproporre l’uscita di scena di ogni personaggio con una lapide commemorativa scandisce con brio il countdown ma ha meno effervescenza. Del resto l’umorismo, di cui il film originale era infarcito affiancando al dark la comedy, è una delle cose più difficili da esportare e adattare (ce lo insegnano fior di comici di straordinario successo nel paese di origine e poco capiti al di fuori dei propri confini). Funziona, invece, la scelta di trasformare la banda di serbi in nativi americani, dando voce, pur tra gli stereotipi, a una minoranza etnica presente sul territorio. Per il resto la storia scorre con ritmo, cercando di caratterizzare i personaggi con precisione, ma pone Neeson, nella parte centrale, un po’ ai margini della vicenda rischiando di disperdere l’interesse per i successivi sviluppi. Sarebbe stato interessante qualche approfondimento anche per i ruoli di Laura Dern, moglie del protagonista, che si limita a uscire quasi subito di scena, e della poliziotta intraprendente di Emmy Rossum, fin troppo esornativo. C’è chi ha scomodato paragoni con Tarantino, i Coen e Kitano, in realtà Petter Moland trova una sua voce personale, solo che la trasposizione del suo stile oltreoceano gode di una minor resa rispetto all’originale.