TRAMA
Davide Bias, scrittore incompiuto, viene informato della morte del padre: Achille Bias, sceneggiatore di film di serie B, che avrebbe lasciato una misteriosa autobiografia.
RECENSIONI
Pupi Avati dialoga con la morte. In Un ragazzo d’oro c’è un figlio che vuole scoprire il padre dopo la scomparsa e prova a conoscere la verità sul genitore per sostituzione, ovvero scrivendo al suo posto la presunta ultima opera: un romanzo autobiografico che coincide con la vita sentimentale e include il rapporto padre/figlio e, come questo, non è mai stato scritto, è rimasto pagina bianca. All’opposto, c’è il fantasma di un padre che educa il proprio figlio a diventare sé stesso perché occorre combaciare, l’adesione scientifica è l’unico modo per costruire una memoria a posteriori. Davide guarda indietro, è chiamato a spezzare il meccanismo del fallimento genealogico attraverso la saturazione di un buco creativo: il libro che non c’è deve prendere forma, essere scritto e diventare un capolavoro, ma il prezzo è lo scivolamento progressivo nella follia. Davide scrive il libro del padre, diventa suo padre e accetta di impazzire. Il suo atto, l’uscire di senno consapevole, dimostra che “doppiare” e rifare non è possibile: il momento della stesura di una storia non si replica, la scrittura non prosegue nel tempo, il cinema si tramanda solo perdendo la ragione. Alla fine del percorso, seppure fuori campo, c’è sempre la morte.
E' questo ciò che stupisce nella confusa videoconfessione di Avati. Non è l'aspetto autobiografico, che non si nega ma suona irrilevante, fatto di sensi automatici e figure ovvie (dallo sceneggiatore fagocitato dall'industria alle dinamiche del B-movie, compresa la sua rivalutazione, non c'è nulla di nuovo). E non è neppure l'incursione nel gotico, in particolare nel topos langhiano della stanza chiusa, che avvicina questo film più a Il nascondiglio che all'Avati nostalgico e 'bolognese'. Facilmente liquidabile anche il rapporto filiazione-paternità, inscenato in rivoli complessi e per schegge irriconciliate, ma tutto sommato prevedibile all'approdo: il figlio scoprirà il padre, il padre valorizzerà il figlio, con la vittoria del premio Strega per interposta persona. Così come non sorprende il cast fuori luogo, più o meno tutti, da Scamarcio che cade pesantemente nella 'pazzia' sino all'icona-caricatura della Stone ridicolizzata dal doppiaggio, passando per una Capotondi decorativa. A sconcertare davvero è invece il modo frontale con cui il regista affronta la morte.
All’interno di un “libro nel film” incerto e pasticciato, sempre fermo alla superficie, tra le righe delle trovate più sfacciate (la trasformazione hitchcockiana del figlio nel padre), dietro al leitmotiv sfinente di Gualazzi si nasconde un confronto diretto con il disfacimento. Il regista emiliano lo esplicita in poche ma indubbie riprese: nel luogo dell’incidente Davide guarda giù, la camera produce una prospettiva verso il basso, nello spazio vuoto in cui è precipitato il padre, il giovane scrittore vede la morte. Di nuovo l’immagine di Davide, inquadrata mentre scrive il romanzo, si attenua e scompare gradualmente in dissolvenza. Poi ritorna in campo, ma per un attimo lo scrittore/sceneggiatore/regista è svanito. Per Avati oggi è un tempo senile: il tempo di abituarsi all’oscurità. E quello schermo che annerisce, quella struggente sparizione contiene il suo dolore di avvicinarsi alla fine.
