TRAMA
La lotta di Sonia contro un potere indifferente ai supplizi di suo marito malato di cancro. Una lotta che degenera, con una pistola in mano a sorreggere paura e impotenza. Una battaglia disperata, votata inevitabilmente alla sconfitta.
RECENSIONI
«La salute, un diritto umano minato, che diventa una questione di soldi. Le grandi aziende e la mancanza di responsabilità morale visualizzati da questi “mostri” dei tempi moderni. L’inefficienza, la burocrazia e la corruzione come tanti nemici del cittadino comune». Nelle scarne note di regia, Rodrigo Plá fissa i bersagli di Un mostro dalle mille teste, tratto dall’omonimo romanzo di sua moglie – e sceneggiatrice di tutti i suoi lunghi – Laura Santullo, e film d’apertura della sezione Orizzonti alla Mostra di Venezia 2015. Del resto basta tornare indietro, al suo (bel) lungometraggio d’esordio, La zona, che nel 2007, sempre al Lido, ottenne Il Leone del Futuro, per ricordarsi che da sempre determinate geometrie politiche e sociali animano il cinema del regista uruguaiano (ma messicano d’adozione): «Cosa si può fare – si chiedeva all’epoca – quando l’inefficienza e la corruzione di chi dovrebbe fare giustizia ci lasciano senza protezione? Cosa si può fare in un mondo dove una minoranza di persone è sfacciatamente ricca e una maggioranza disperatamente povera?». Nel mezzo, si sono aggiunte opere come Desierto Adentro (2008), l’episodio 30/30 del film collettivo Revolución (2010) e La demora (2012). Per Plá il cinema è questione politica; ma lo è sin nell’immediato, vale a dire sin dalla superficie dei suoi lavori, senza per questo ridurre la “denuncia” a tesi o ricetta didascalica. Il discorso di Plá è proprio nelle (e delle) trame che costruisce, si addentra nello svolgimento che dà loro; è una forma narrativa, è la sua capacità di farne racconto, ritmo, tensione.
E Un mostro dalle mille teste, se non possiede impatto e forza della Zona, di certo ha dalla sua una ruvidità e un senso di “non finito”, di parzialità che sono funzionali, qualcosa che ben si adatta alla storia strutturandosi come modello congeniale, senza apparire però soluzione programmatica. E, allora, anche la freddezza narrativa è in fondo un’apparenza, perché in grado invece di produrre essenziali e precisi filamenti spettacolari quasi in forma di dettagli e frammenti, di margini e parentesi, piuttosto che di esplicito materiale propulsivo, in questo thriller sì trattenuto ma non inerte. È il tempo interno stesso del film, questo, la concentrazione degli elementi narrativi in un andamento che punta a una sintesi ipotetica, incompiuta, anziché all’accumulo e alla sovrabbondanza stilistica.
Un caso di malasanità in Messico è il nucleo: suo marito sta morendo di cancro, soffre molto, ma dall’assicurazione sanitaria gli viene negato un trattamento chemioterapico che lo aiuterebbe parecchio. Sonia (Jana Raluy), allora, raggiunge gli uffici dell’assicurazione per cercare di capire, per chiedere aiuto e comprensione, tutti però sono sordi alle sue richieste. Il crescendo prende avvio da un medico e sua moglie legati nella vasca da bagno della loro casa, in una giornata da incubo per Sonia, accompagnata dal figlio adolescente (Sebastián Aguirre Boëda) che la vorrebbe fermare senza riuscirvi, anzi collaborando suo malgrado con lei, e per quelli che incontra sulla sua strada. Neanche una pistola può proteggere lei e suo marito. Jana Raluy, attrice di teatro, indossa la disperazione del personaggio molto bene. E il film si gioca anche nello spazio tra il suo personaggio e quello del figlio, secondo traiettorie che non incrociano le loro psicologie, ma l’amore che li lega, come nella riuscita scena che chiude il film. Stile asciutto, esecuzione dura ed efficace. In poco più di settanta minuti, le tracce di un Paese in cui solo l’8 per cento della popolazione può consentirsi un’assicurazione sanitaria.
