Drammatico

UN MONDE PLUS GRAND

NazioneFrancia
Anno Produzione2019
Durata99'
Tratto daMon initiation chez les Chamanes di Corine Sombrun
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Per superare la morte dell’amato marito Paul, Corine lascia Parigi per seguire un progetto di lavoro in Mongolia. L’incontro con le pratiche sciamaniche locali le apre le porte di un nuovo mondo percettivo e la scoperta di avere in sé un dono, la indirizza verso un percorso di iniziazione…

RECENSIONI

Film dalla spiccata connotazione femminile, “Un mondo più grande” è un tracciato sensoriale verso la scoperta di sé, di un io amplificato che presuppone una predisposizione e scaturisce dal lutto: Corine (Cécile de France) ha perso il suo grande amore, suo marito, e non fa che cercarlo, ovunque e in ogni cosa, invano. Con l’animo annodato alla mancanza -di un contatto fisico e mentale, di un’intera vita, ormai irrealizzabili- si scopre aperta alla ricerca di qualcosa di ulteriore, qualcosa che necessita di iniziazione.

È la vera storia di Corine Sombrun, etnomusicologa del Burkina Faso, che a partire dai primi anni duemila si è dedicata allo studio dello stato di trance, in particolare indotto dal suono del tamburo, tornando regolarmente in Mongolia per seguire gli insegnamenti di uno sciamano di etnia tsaatan, stilando, in seguito, grazie alla collaborazione del neuropsichiatra e ricercatorePierre Flor-Henry, il primo protocollo clinico di ricerca in ambito neuroscientifico riguardante la trance sciamanica mongola.
Cécile de France, in vago sentore di Hereafter, ma con il contraltare razionale di Ludivine Sagnier, ne ricalca le orme con fiducioso abbandono alla direzione della regista Fabienne Berthaud, dando prova di grande umiltà attoriale, oltre alla già nota bravura, che procede in perfetta corrispondenza con l’umiltà necessaria per intraprendere un percorso che rimette in gioco l’intero “io”, nel momento terribilmente ideale in cui si ha la sensazione di non aver più nulla da perdere perché si è già perso tutto. Cécile indossa il tipico deel mongolo con lunghe maniche e cintura in vita, in un vivace blu, limpido come la fotografia di Nathalie Durand, e abbraccia le abitudini nomadi delle steppe trovando irrequietezza e idillio in una terra straniera che sembra offrirle l’unica possibile familiarità da quando tutto si è fatto estraneo. E di estrarre dal suono del tamburo il ritmo che la conduca altrove e ad essere altro, donna, spirito, lupo, pura sensazione fino alla perdita dei sensi.

L’interprete francese-mongolo Narantsetseg Dash e la sciamana Tserendarizav Dashnyam completano il cerchio di donne in armonico contrappunto reale-messo in scena, razionale-sensoriale che caratterizza il film, in cui le poche figure maschili appaiono lievi, quasi volatilizzate, come il compianto marito dalla cui assenza tutto principia. Questo sentimento forte e sensibile, solidale e compensativo è il margine di maggiore apprezzabilità, al di là dell’intensa tematica e della traccia autobiografica, di un film che sembra in continua ricerca di uno stile espressivo, di un modo per mettere in immagini le sensazioni che narra, senza tuttavia trovarlo, ma accumulando suggestioni, mescolanze di figure e suoni che possono suscitare empatia verso lo stato emotivo della protagonista, ma che lasciano all’esterno sul versante tribale-sciamanico, quanto più cercano di raffigurarlo nella sua autenticità. C’è, difatti, laddove l’occidente ha messo piede, quasi sempre una versione commerciale di ciò che è “etnico”, anche nelle tradizioni più antiche: la sciamana che simula la trance ingannando i turisti, confessandolo poco dopo, illustra questo aspetto per prenderne le distanze. Ma nella sua ricerca di rappresentazione dell’ulteriore, il film risulta così esplicativo, ma non troppo, percettivo, ma non del tutto, da non lasciarci né immergere fino in fondo nella realtà che descrive, né osservare a distanza, e nonostante la bontà dell’idea da cui muove, produce più rispetto che partecipazione. La Mongolia appare come un quadro idilliaco, documentario in forma di fiction e fiction documentata. I colpi del tamburo rapiscono e stremano la protagonista che li produce e controlla; noi osserviamo incalzati dalla percussione, sospesi tra il sentire e il capire. Dopotutto, non siamo sciamani, ma spettatori.