TRAMA
Un giovane della buona borghesia inglese porta a conoscere ai genitori la sua promessa sposa: un’affascinante americana. La ragazza, però, non piacerà troppo alla madre di lui e tra le due sarà guerra all’ultima battuta.
RECENSIONI
Stephan Elliot riadatta per il cinema un testo teatrale di Noel Coward, già portato sullo schermo nel 1928 da Alfred Hitchcock. Il maestro inglese non aveva avuto parole troppo lusinghiere per il suo lavoro, tanto da parlarne nell'intervista con Truffaut come del ”più brutto soggetto che abbia mai scritto, a tal punto che ho perfino vergogna a raccontarlo”. Le parole di Hitchock si adattano male all’opera di Elliot, una delle sorprese del festival; pur non brillando per originalità - ripropone il topos del rapporto conflittuale suocera-nuora - né per l'ampiezza/profondità dei risultati raggiunti, Easy virtue si configura come una commedia classica con una sceneggiatura solida, fondata su una giusta amministrazione dei tempi (perfetta struttura in tre atti), su personaggi ben costruiti, sottili, ma senza nessuna concessione a ogni psicologismo, e su un umorismo raffinato che, privo di eccessi, garantisce il ritmo sostenuto.
Di sicuro, rispetto alla versione hitchcockiana, introvabile, Elliot fa una scelta sul piano narrativo che garantisce la compattezza drammatica: elimina, cioè, tutto quello che riguarda il passato doloroso della protagonista, con il racconto del quale Hitchcock invece apriva il suo lavoro, e lo rende implicito, posponendone lo svelamento nella parte finale. È uno stravolgimento strutturale: da un dramma incentrato su una protagonista la cui ambiguità è nota dall'inizio, si passa a una commedia che solo per passi rivela il sostrato drammatico che permea in modo sottile tutti i personaggi (si pensi alla delicatezza con il quale è appena accennato il tema dell'eutanasia), senza rinunciare, però, alla sua natura brillante; è infatti brillante l'asse portante del film, ovvero il sopraccitato contrasto tra la nuora e la suocera che, oltre a costituire l'ennesimo scontro generazionale, riproduce il passaggio tra due epoche: l'Ottocento romantico, devoto ai propri miti (la caccia, le feste), ancora sedotto da un gusto superficialmente neoclassico (la riproduzione della Venere di Milo) e cristallizzato da regole e convenienze divenute stantie; e il Novecento, raffinato e cosmopolita (l'eleganza della protagonista fa impallidire le altre donne di casa), proiettato verso la tecnologia (la passione per i motori) e l'arte d'avanguardia (Picasso).
Eppure qualcosa non torna e inscritti nel progetto ci sono anche i suoi limiti: Easy virtue manca di coraggio: riprende il modello Cukor da un lato e la tradizione umoristica britannica dall'altro, senza riuscire a dare loro nuova vita; vanta uno stile sempre sorvegliato e trasparente - forse troppo - privo di note stonate (fatta eccezione per il personaggio di Colin Firth, un po' giovane per il ruolo, oltre che del tutto fuori parte), ma che chiude l'opera entro un manierismo freddo, pur di indubbia qualità, lontano dunque dall'essere arte. Ottimo intrattenimento, ma niente di più. Davvero superlative, però, le prove di Jessica Biel e Kristin Scott Thomas, perfette nei loro ruoli.
A distanza di dieci anni dalla sua ultima opera (The Eye, un flop che gli è costato caro, cui s’è aggiunto un incidente sugli sci che lo ha tenuto fermo per tre anni), l’australiano Stephan Elliott sbuca negli Ealing Studios londinesi e, a sorpresa, rispolvera un testo teatrale del 1924 del benemerito Noel Coward (in Italia fu rappresentato con il titolo “Intermezzo”), adattato al cinema in una versione muta di Alfred Hitchcock (di cui il maestro non andava fiero). Elliott rispetta e, al contempo, tradisce la fonte: la sua sceneggiatura, scritta con Sheridan Jobbins, ripensa la struttura, lascia intatti personaggi e spirito (che oppone conservatorismo vittoriano e progressismo moderno), sposta la vicenda dal 1923 al 1929 e ha la felice intuizione di trasformare in colpo di scena finale il modo in cui è morto il marito (Coward lo rivelava subito), mutando, di conseguenza, il personaggio di Larita in eroina. L’idea è anche quella di partire in commedia (che ingrana a fatica, con Elliott più preso dalle canzoni e dai trucchi di montaggio che dal testo, dai suoi tempi, dal suo mood) e non adagiarsi, come l’originale, sul melodramma: quest’ultimo fa capolino nella seconda parte, accendendo emozioni più intense e portando ad amare/odiare maggiormente i personaggi. L’iconoclastia tipica del regista si esprime, soprattutto, nella citata componente musicale, con una colonna sonora in cui ri-registra (anche) brani moderni per farli sembrare uscire da un grammofono dell’epoca (lo stesso Elliott e la troupe si sono divertiti a fare i “musici”: sentire il brano sui titoli di coda). Nella parte iniziale li immette in continuazione, in assenza di diegetico commento sonoro, alla ricerca di una stonatura “moderna” e per stare, esteticamente, dalla parte del personaggio dell’americana, anche attraverso elaborazioni figurative (vedi gli attacchi di sequenze giocati sulle superfici riflettenti). Fra gli interpreti, la rivelazione è Jessica Biel: sopraffina.