Drammatico, Recensione

HO VISTO GLI ANGELI

TRAMA

Paul conosce Frédéric tramite un amico comune. Frédéric è un pittore e vive con Angèle, che lavora come attrice in Italia. Mentre aspetta l’occasione per affermarsi da attore, Paul lavora come comparsa. Sul set di un film Paul incontra Elisabeth, anche lei impegnata come comparsa: i due si innamorano…

RECENSIONI

“Nella pittura classica, i discepoli volevano avvicinarsi all’opera del maestro, provavano addirittura a rifare le tele dei pittori che ammiravano della generazione precedente”: è in quest’ottica umilmente emulativa che Philippe Garrel si definisce epigono di Jean-Luc Godard, autore che il cineasta sessantatreenne considera un modello inarrivabile per la capacità di sfuggire alle insidie del naturalismo, all’imitazione della vita, alla copia. Se JLG si è sbarazzato del naturalismo filmando al presente, creando l’inquadratura sul set, Garrel adotta un metodo non troppo dissimile, girando spesso le scene una sola volta, approfittando dell’immediatezza della recitazione, dell’unicità delle riprese: “permette agli attori di essere giusti, poiché è la prima volta che interpretano la scena e di colpo sono un po’ come nell’esistenza: questa apprensione della prima volta corrisponde alla nostra apprensione della vita”. Accorgimento tanto elementare quanto efficace che dà al regista parigino la facoltà di oggettivare l’ossessione regina del suo cinema: accordare i fotogrammi al passaggio del tempo, superare il rapporto tra durata effettiva dell’inquadratura e tempo di lettura in favore dell’istante cinematografico puro. Essere sempre in tempo. Così, pur fuori dalla contemporaneità, i suoi film dipingono immancabilmente “juste du temps d’existence” (espressione usata da Garrel a proposito di The Tree of Life). Una sincronia tra immagini filmiche e durata esistenziale che produce armonia malinconica, flusso struggente, sensazione di cattura e fuga in un solo mo(vi)mento.

Morte, amore e amicizia si depositano nei pannelli di un film austeramente calcolato e mollemente rilassato, mentre la Bellucci, icona denudata, rigenera giunonica la Bardot di Il disprezzo. Girata tra Roma e Parigi nell’estate 2010, ispirata a una storia d’amore di Frédéric Pardo (pittore trapiantato in Italia ed ex migliore amico di Garrel) reinventata dalla sceneggiatura scritta insieme al solito Marc Chodolenko e alla compagna Caroline Deruas per sbozzare la libido femminile (“Quando una donna scrive di questo nei miei film ciò produce improvvisamente un angolo. Qualche cosa si confronta”), quella di Garrel è una pellicola cromaticamente chiusa (“I colori vanno delimitati con il nero”) e programmaticamente struggente (“Fare un film commovente per la prima volta”). Stretta sui personaggi, isolata dal contesto ma percorsa da un’inconsueta frontalità politica (“Quelle merde, ce Sarko!”, esclama Louis Garrel alla visione di un arresto notturno), la bruciante estate garreliana riversa l’esigenza sentimentale di La Naissance de l’amour nella tormentosa volubilità di Le vent de la nuit: la nascita dell’amore si fa ossessiva paura del vuoto, il legame maschile tra Paul (Louis Garrel) e Frédéric (Jérôme Robart) decentra i rapporti di coppia (Elisabeth, magnificamente interpretata da Céline Sallette, rimprovera al compagno Frédéric di trascurarla).

Garrel si affida alla propria maniera, inquadra la realtà secondo prospettive già viste nel suo cinema (si pensi alla al solito meravigliosa sequenza di ballo, così vicina a quella di Les amants reguliers, così vicina a quella di Sauvage innocence), dirige con un automatismo discontinuo, capace solo a tratti di restituire angolazioni illuminanti, in una dimensione di déjà vu che sa, semplicemente, di afflato feriale, abituale, come se Garrel facesse cinema invece di respirare, come se girare non fosse un punto di arrivo, ma pane quotidiano, pratica inesausta. In un'ipotesi di cinema di tale fattura, l'osmosi con la vita reale non può che essere costante, non può che pervadere il film di autobiografismo, non può che ridurre il mondo al proprio, personale, ombelico: Garrel abbraccia i limiti degli individui che mette in scena, dei suoi protagonisti sposa amorosamente la visione ottusa, pervicacemente romantica, ingenuamente ideale sia nella pratica politica che in quella sentimentale, descrive un pianeta lontano eppure umanissimo, turgido di esistenzialismo, marxista per abitudine, incapace di comprendere il circostante, serioso eppure goffo, scevro da imbellettamenti, teatrale ed enfatico per vocazione, vivo e vero proprio per questo (e proprio per questo stoltamente deriso). Così il tono minore, piano e mai assoluto, dell'opera pare frutto del tentativo di fare della cinepresa bocca che articola lessico familiare, in espressioni urgenti scaturite da un orizzonte sempre più delimitato, avvicinando sempre più il cinema alla vita. Ciò non toglie che Garrel, chiuso nel suo microcosmo bohémien, tanto da racchiudere aneddoti e volti cari (il meraviglioso inserto dedicato al padre Maurice, prossimo a morire), sia pienamente cosciente della sua estranea ingenuità rispetto alle cose del mondo: la battuta su Sarkozy è secca e inappellabile, ma proclamata da chi è Altro, rispetto a quella realtà e Un été brûlant, ambientato nella contemporaneità, se ne dice infatti distante, facendosi racconto di un racconto (tutto è filtrato dalla narrazione di Frédéric), coniugandosi al passato prossimo. Così vicino, così lontano, uno struggente atto di esistenza, più che di resistenza.

Alessandro Baratti & Giulio Sangiorgio

Si dirà che Philippe Garrel o si ama o si odia. Se non si rientra in nessuna delle due categorie, e tentando di attenersi all’opera presentata in Concorso al Festival di Venezia, bisogna riconoscere al regista francese un’indubbia qualità: la fedeltà a uno stile che ha fatto dell’anticonformismo la sua bandiera. Purtroppo, però, occorre anche sottolineare che dai fermenti della nouvelle vague a oggi tante cose sono cambiate, anche nel modo di vedere per immagini. Diventa così irrimediabilmente datato trovarsi davanti ai soliti personaggi cupi, monosillabici e spocchiosetti che grondano stereotipi intellettualoidi: uomini e donne che si struggono per l’impossibilità di trovare un punto d’incontro tra razionalità e pulsioni, con l’arte come unica strada per esprimere l’insopportabile pesantezza dell’essere. Ecco quindi lo pseudo artista annoiato e noioso che si sposa con l’attrice mirabile (Monica Bellucci, chissà se consapevolmente ironica mentre legge recensioni sublimi sulle sue doti interpretative) ma non trova la felicità e si confida con l’amico meno tormentato e prossimo alla paternità. Potrebbero essere dinamiche universali, quelle messe in scena da Garrel, se non fosse per un maledettismo d’accatto, qualche citazione cinefila (l’incursione a Cinecitta), il tentativo maldestro di ancorare il disagio al presente (le battute gratuite contro Sarkozy e a favore degli immigrati) e personaggi che si parlano addosso dall’inizio alla fine con solenne grevità, tra l’altro senza dirsi granché. E così tra inutili tira e molla, confronti inconcludenti, scene madri appiccicate e seduzioni ridicole, l’amore prende strade diverse e trova pacificazione per alcuni e un triste destino per altri. Amen.