La giuria di un Festival non costituisce mai la semplice somma dei suoi addendi. Perché gli ego sono incontrollabili e quasi tutti i giurati faranno delle loro preferenze una ragione di vita o di morte. Il pensiero che possa essere premiato un film che non rientra nelle tue preferenze, il fatto che quella scelta che non ti appartiene possa esserti anche solo implicitamente attribuita rende pazzi, isterici, pugnaci. Quindi niente di più facile che si elevino barriere e veti insormontabili in sede di lavori. Queste resistenze sono deleterie perché conducono inevitabilmente a esiti infelici, in cui a essere premiato è il terzo, quarto titolo preferito di ciascuno. Una decisione di medietà che mette d’accordo tutti e non soddisfa nessuno. Per questo, a volte (fa specie dirlo, ma è così), solo la presenza di un presidente forte e un po’ autoritario può portare a decisioni storiche e a vittorie che restano nel tempo.
Fu il caso di Pulp Fiction che fu una scelta di Clint Eastwood che presiedeva la giuria, il quale annunciò, all’indomani della proiezione, «Ieri abbiamo visto la palma d’oro», senza ammettere repliche. Poi venne a patti sugli altri premi (il Moretti di Caro diario tra tutti, che non gli era piaciuto affatto), ma intanto l’esito che contava se lo ero portato a casa. La Storia oggi gli dà ragione, ma nella consapevolezza che nessuna giuria “democratica” avrebbe fatto vincere il film di Tarantino. Come nessuna giuria “democratica” avrebbe dato il premio a Cuore selvaggio di David Lynch, se non ci fosse stato a dirigere i lavori della giuria Bernardo Bertolucci, altro noto presidente che metteva il marchio sul verdetto (Prénom Carmen di Godard e Sacro GRA di Rosi, a Venezia).
Questa bella premessa per rendere merito alla giuria di Un Certain Regard di quest’anno (che qui nomino per intero: Nadine Labaki – regista e presidente -, l’attrice Marina Foïs, il produttore Nurhan Sekerci, i registi Lisandro Alonso e Lukas Dhont) che ha partorito un verdetto che soddisfa davvero tutti.
Miglior film La vita invisibile di Euridice Gusmão di Karim Aïnouz, mélo brasiliano che smentisce il respiro popolare della narrazione con una struttura quadratissima che sa giocare (a volte in maniera fin troppo esatta) con i molti strati del racconto e la resa del contesto sociale e storico. Ma anche con la suspense, una commozione tutta di testa (il finale), e uno stile visivo audace, fatto di cromie sature e dei movimenti di un’empatica macchina da presa. Il film ha tutti i numeri per diventare anche un successo al botteghino e un serio candidato alla stagione dei premi.
Premio della giuria a O que arde di Oliver Laxe, riconoscimento sacrosanto per uno dei talenti emergenti del cinema europeo: film povero, primitivo, ma assai potente, che tratta del rapporto tra il lavoro della terra e la modernità. E che discioglie la narrazione elementare (Amador torna al nativo villaggio della Galizia dopo aver scontato una pena per aver causato un incendio: l’attendono la madre e tre vacche) nella contemplazione di uno stile di vita primordiale, di una comunità chiusa nelle sue ragioni e nei suoi pregiudizi. Fino alla nuova catastrofe di fuoco. Che ha già pronto il suo colpevole.
Il premio per la migliore interpretazione va a Chiara Mastroianni per il film di Christophe Honoré Chambre 212: nuovo, adorabile e liberissimo esercizio del regista francese sull’evoluzione del sentimento, mescola Alain Resnais, Woody Allen e Ingmar Bergman, in una lunga seduta onirica e psicoanalitica, un gioco teatrale che fotografa i labirinti percorsi da una mente in subbuglio, in cui si mescolano fantasie e ipotesi, presente e passato, sogno e realtà.
Di Beanpole, che ha portato a Kantemir Balagov il premio alla miglior regia si è già scritto. Come della menzione speciale, Jeanette di Bruno Dumont.
Del premio speciale a Liberté, che consacra ancora una volta il talento (e il coraggio) di Albert Serra diremo prossimamente.