TRAMA
Eric deve scendere dall’autobus su cui viaggia perché non ha soldi per l’intero viaggio. L’uomo arriva in una città sconosciuta, dove inizia a frequentare uno spazio gastronomico la cui principale attrazione è una bellissima cameriera di nome Stella.
RECENSIONI
Dopo Laura (Vertigine) nel 1945 Preminger gira il suo secondo noir, Fallen Angel (Un angelo è caduto), senza raggiungere l’argentea perfezione della pellicola realizzata l’anno prima, ma alzando, se possibile, la posta in palio: non più un intrigo d’amore morbosamente e fantomaticamente micidiale ambientato a New York, ma una vicenda di attrazione fatale collocata in una cittadina sperduta dove si incontrano un uomo venuto dal nulla e una donna spuntata dalle tenebre. Al centro una tavola calda che irradia un bagliore attraente e sinistro come fosse uno scrigno incandescente. Niente di più irrealistico: la discesa forzata di Eric (Dana Andrews, professionista dell’underplay) nel piccolo centro tra Los Angeles e San Francisco ha fin dall’inizio i connotati della fatalità e l’arrivo di Stella (Linda Darnell, bellezza sferzantemente sensuale) nel diner dopo tre giorni di assenza lo soggioga immediatamente. Una volta vista Stella (l’irraggiungibilità, il magnetismo) l’uomo è spacciato: osservarla massaggiarsi il piede e respingere le premure degli spasimanti con frasi secche come frustate ha su di lui l’effetto di un sortilegio. A questa marcata impostazione astratta si aggiunge, volano di eccentricità, la torsione paranormale: Eric si associa a due ciarlatani appena conosciuti che organizzano spettacoli di spiritismo in cui fingono di mettersi in contatto con le anime dei morti, in realtà riportando pettegolezzi e maldicenze sotto forma di necromanzia. È grazie alle loro ricerche che viene a conoscenza della parte di eredità spettante a June (Alice Faye), architettando così il complotto ai danni della sprovveduta zitella, malgrado l’accanita sorveglianza della smaliziata sorella maggiore Clara (Anne Revere). Fatalità, fascinazione, paranormale, inganno: la rapidità con cui questi temi si avvicendano, spingendo il protagonista a prendere decisioni affrettate, non fa che incrementare la sensazione di artificiosità di un film che sotto la patina di convenzionalità nasconde una natura quasi sperimentale. Non soltanto per la virtuosistica fotografia di Joseph LaShelle che dà letteralmente voce alle luci e alle ombre (l’illuminazione al calor bianco del diner, le zone buie che celano figure acquattate) e non soltanto per la lunghezza record dei piani (Bordwell osserva che la durata media di un’inquadratura di questo film è di circa mezzo minuto), ma soprattutto per il lavoro sugli spazi: totalmente disgiunti tra loro, i luoghi di Un angelo è caduto sono eminentemente mentali. Il diner, la casa delle sorelle Mills, la chiesa, la sala da ballo, la spiaggia: ogni luogo è al tempo stesso contenitore dell’azione e dimensione drammatica a sé stante. In questi spazi disarticolati e saturi di oggetti simbolici (il juke-box nella tavola calda, l’organo nella chiesa, la scala del locale notturno) la macchina da presa si muove come un personaggio invisibile, ora partendo da un piano ravvicinato per allargare successivamente la visuale, ora muovendo da una posizione defilata per stringere l’inquadratura sui personaggi fino a isolarli del tutto dall’ambiente. E se è vero quanto dice Vieri Razzini (ovvero che “il regista ebbe a disposizione una produzione di grande livello”), questa spazialità intermittente e stravagante non è il portato filmico dell’economia di set (come avveniva nei cosiddetti “b-movie”) ma un preciso effetto stilistico che conferisce a Fallen Angel un’intensità mentale assolutamente singolare, risultante dalla forte discontinuità spaziale da una parte e dalla completa praticabilità dei luoghi dall’altra (la macchina da presa ha totale libertà di movimento). Una tensione che testimonia ancora una volta quanto il noir abbia rappresentato un territorio di ricerca espressiva e di sfrenata esplorazione stilistica. “Preminger pensava che quando avremmo rivisto i suoi film avremmo scoperto qualcosa, cioè uno stile” (Vieri Razzini).