TRAMA
Philippe Lemesle è un dirigente d’azienda di oggi: in crisi con la moglie, deve ridurre i costi del personale in vista di una ristrutturazione.
RECENSIONI
LAVORO: TRE VOLTI
Astrazione
Stéphane Brizé, con la chiusura del trittico sul lavoro, esegue un’operazione peculiare e unica nel cinema del nostro tempo, che appare più nitida arrivati alla fine del percorso. Ed è un’operazione che acquista senso da una contraddizione fertile, ovvero dalla coincidenza tra due spinte contrarie che in teoria sarebbero inconciliabili: l’astrazione e l’umanità. Dopo la conoscenza di tutti i tasselli, diventa più chiaro come quello di Brizé sia un gesto di astrazione applicato al mondo del lavoro contemporaneo: il regista affida allo stesso attore, Vincent Lindon, le tre figure cardine del problema lavoristico oggi, ovvero il Disoccupato, l’Operaio e il Dirigente. La scelta consapevole di incarnare tre forme nel medesimo corpo propone Lindon come una sorta di co-autore del trittico, ma non solo; costruisce una strategia ardita, quasi sperimentale, perché allarga alla questione complessiva del lavoro una pratica tradizionalmente applicata al cinema gemellare, di solito nello stesso film: i fratelli interpretati da un’unica persona, così come “fratelli” sono Thierry, Laurent e Philippe di questi tre film.
È così che la figura di Lindon subisce continui slittamenti. Il salto della barricata si compie non solo da In guerra a Un altro mondo, dall'operaio al dirigente, ma è costitutivo dell’intero trittico: ne La legge del mercato egli è un disoccupato in cerca di impiego, rigorosamente a-politico, ossia senza politica, vissuto nel deserto dell’oggi che non pensa niente, non sostiene niente, vuole solo lavorare; con In guerra diviene un operaio combattivo alla guida di una protesta sindacale, un leader non più possibile, costretto a muoversi nella mediaticità fino all’estrema conseguenza; in Un altro mondo veste il dirigente Philippe Lemesle che di fatto non è capo di nulla, anzi viene stritolato dal sistema che cannibalizza anche i colletti bianchi, masticandoli come gli operai. Si tratta quindi di un doppio scavalcamento di campo, segnalato d’altronde dai titoli che già contengono il senso dei racconti: prima il mercato, con la sua legge che non è buona o cattiva, semplicemente è così, poi l’ipotesi di metterlo in dubbio attraverso una guerra, infine il ribaltamento di sguardo che mostra le cose in un altro modo, da un altro mondo. Ma l’ultimo titolo è solo una falsa pista, un'antifrasi: l’altro mondo in realtà è lo stesso. Quello del lavoro, il nostro. Proprio da questo si forma la sostanza profonda dell’operazione: dall’idea che il disoccupato, l’operaio e il dirigente siano uguali. Sono tutti Lindon. Nella diversità intrinseca dei contesti, dunque, è il Lavoro stesso che si va descrivendo, un mostro a tre teste ma con lo stesso viso, in un atto di astrazione che raramente si è visto sullo schermo: stiamo parlando del concetto in sé, di un'idea resa appunto concreta.
Umanità
Ed ecco la seconda spinta che si scontra con la prima, e nella deflagrazione disegna il senso del triplice e unico film: l’umanità. Lo spiega lo stesso Brizé: «Come si può ammettere di provare dolore, di essersi perduti, quando si è parte dell’élite? Lamentarsi apparirebbe vergognoso agli occhi di chi vive in condizioni meno agiate, e un segno di debolezza imperdonabile agli occhi suoi (di Lemesle, ndr) e di quelli come lui». Il dolore del dirigente compone gradualmente il suo carattere interiore, che denota un intimo combattuto, sofferto e dunque umano: un capo non perfetto, che squarcia la retorica del buen patrón vista nella commedia di Aranoa. Lo attesta la crisi coniugale con la moglie, esattamente come altri squarci rivelavano l’impatto del lavoro sulla vita nei tasselli precedenti (per esempio le sequenze col figlio disabile ne La legge del mercato; le difficoltà private solo intuite per In guerra, film “esteriore” di scioperi e piazza). L’omogeneità del discorso si traduce in sede di scrittura nel ritorno di dinamiche simili per personaggi diversi: il figlio di Lindon ne La legge del mercato è gemello eterozigote del figlio di Lindon in Un altro mondo, come se questo, di mondo, facesse impazzire i figli contaminandoli coi geni dei padri, avvelenandoli nel contesto spietato. L’ex moglie assente di In guerra, il fuori campo del suo personaggio finisce per incarnarsi qui nella moglie del dirigente, in Sandrine Kiberlan sull’orlo del divorzio, che potrebbe finire come l’altra. Rime interne che gravitano attorno a Lindon uno e trino, trovando alla fine di Un altro mondo un'efficace concretizzazione visiva: Lemesle sfoglia le carte che lo ricattano mentre il figlio internato fa muovere i fili di un burattino di legno, in un dialogo dentro le immagini che produce una metafora definitiva, una lettura della trilogia. Da una parte i burattini del lavoro, dall'altra la possibilità di tagliare i fili. Ma esiste davvero?
Il dirigente Lemesle stringe e allenta la cravatta come fosse un nodo scorsoio, sostiene riunioni sfiancanti e tutte uguali, vive in ufficio e lo porta in casa, scrive una proposta alternativa che viene bocciata da un capo immateriale, come lo era la multinazionale di In guerra, senza più sede in Francia e quindi incontestabile, morte per consunzione della lotta di classe: qui il confronto video col capo è paradigmatico perché conferma la smaterializzazione del rapporto di lavoro, l'impossibilità di essere un dirigente illuminato, un nuovo Olivetti. Come ne Il grande capo di Lars von Trier c’è un capo del capo e questo è Wall Street: la commedia grottesca si è ormai verificata, è ricaduta nel reale, è diventata vera. Brizé completa la trilogia girando con mirabile coerenza, non attraverso l'abusato pedinamento semi-documentario ma con una messinscena scientifica, con la ricostruzione di una condizione davanti alla macchina da presa. Attenzione: il suo gesto di rappresentazione non è ideologico, non è “di sinistra”, non c’entra Ken Loach e questo può portare all’equivoco della sottovalutazione (da qui la svista della giuria veneziana di Bong che lo fece uscire senza premi). Brizé inscena un dilemma aperto, non chiude ma apre il mondo del lavoro oggi. Fa una domanda, non dà una risposta: il punto interrogativo sta proprio nel contrasto tra l’astrazione del mercato e l’umanità dei protagonisti, che sono tutti Lindon, da cui generano dubbi etici e rovelli intimi su cosa fare e come vivere. La soluzione? Non c’è. C’è la messa in scena del problema.