Drammatico, Raiplay, Recensione

UN AFFARE DI FAMIGLIA

Titolo OriginaleMabiki Kazoku
NazioneGiappone
Anno Produzione2018
Durata121'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Di ritorno da un nuovo furtarello in un supermercato, Osamu e suo figlio raccolgono per strada una bambina che sembra abbandonata a se stessa. All’inizio riluttante all’idea di ospitare la piccina per la notte, la moglie di Osamu accetta di occuparsi di lei quando scoprono che i suoi genitori la maltrattano. Nonostante la loro povertà, vivendo di espedienti e piccoli furti che completano il loro magro salario, i membri di questa famiglia sembrano vivere felici…

RECENSIONI

In maniera lenta ma inesorabile, la filmografia di Kore-Eda ha ormai raggiunto livelli di piena eccellenza sia a livello quantitativo che qualitativo, dopo avere occupato a lungo le retrovie dei festival maggiori. Tra i titoli che, in essa, spiccano maggiormente, c’è senz’altro Like Father, Like Son (2013), geniale commedia sulla paternità come fenomeno rigorosamente innaturale. Quest’ultimo Shoplifters prosegue sulla stessa scia, ma allarga il discorso alla famiglia nel suo complesso – della quale la paternità è solo una delle funzioni, e nemmeno tra le più importanti.
Al centro c’è, appunto, una famiglia mediamente numerosa, accatastata in un microappartamento mezzo fatiscente, e che vive di piccoli furti e lavoretti temporanei senza la minima tutela. Quando i suoi membri decidono di adottare “informalmente” una bambina maltrattata e abbandonata dai genitori, scatta il sospetto che il film indulga in facili scorciatoie del tipo “poveri dal cuore d’oro”. Ma da ciò, fortunatamente, Shoplifters non potrebbe essere più lontano. Nelle pieghe di un’oculatissima, diabolica disseminazione delle informazioni, attentissima a che non risulti mai troppo esplicito quali tra esse servano a far proseguire il racconto (e non lo farà certo l’esca narrativa più ovvia, quella del benintenzionato rapimento della bambina) e ancora più attenta a non elevarsi mai dai ritmi rasoterra del quotidiano, si fa strada un’ipotesi semplice e terribile: che il collante che tiene insieme la famiglia, ogni famiglia, sia fatto in egual misura dal denaro e dagli affetti, e che anzi il primo e i secondi siano, in quel frangente, propriamente inestricabili.
Nessuna amarezza in questa constatazione. Anzi, Kore-eda non ritira di un centimetro la tenerezza del tono soffuso in quasi ogni scena del film, né l’evidente affetto e simpatia per questa famiglia perfettamente funzionante e perfettamente disfunzionale, nemmeno quando al denaro e agli affetti si aggiungerà la Colpa con la “c” maiuscola quale collante non meno decisivo. Rivelazione, questa, che arriva a seguito di una serie di scossoni e fratture che nella seconda parte rivoltano il film come un calzino, senza che nessuno di questi colpi di scena ed ellissi vertiginose scalfisca minimamente l’assoluto, imperturbabile aplomb del racconto. Anche la morte della nonna (autentico totem che garantisce la consistenza della famiglia e ne informa lo spirito con la sua inafferrabile ambiguità e doppiezza), o i guai con la giustizia più laceranti, oltre a venire condensati in un singolo, conciso tratto di penna come solo i grandi narratori sanno fare, vengono soprattutto liquidati nella più compassata e a-emotiva delle maniere. Se già quando sta insieme la famiglia si appoggia su basi completamente contraddittorie, perché dare peso alla sua dissoluzione? E in fondo il paradosso di questa indifferenza tra l’esserci e il non esserci della famiglia, tra il suo dentro e il suo fuori, sta tutto nel rovesciamento operato dall’enigmatico aforisma del bambino protagonista: “La scuola, è per chi non può imparare le cose stando a casa”.
Kore-eda, insomma, ricaccia nettamente sullo sfondo il dramma potenziale della formazione e del disfacimento del nucleo famigliare, perché né l’uno né l’altro sono importanti: a importare non è il legame profondo del sangue, ma quello di pura superficie che lega fra loro una madre e una figlia adottiva che condividono un’identica cicatrice (violenza domestica in un caso, infortunio sul lavoro nell’altro). O magari la gamba ingessata, dovuta a cause completamente diverse, che accomuna un padre e il figlio adottivo. Il terreno manca da sotto i piedi, la sostanza della famiglia si rivela al contempo completamente inscalfibile e completamente evanescente: se a Kore-eda non interessa il dramma, è perché si interessa ad esplorare con straordinaria precisione il modo in cui questo paradosso finisce per essere il fondamento stesso del rapporto tra padre e figlio. Certo, lo aveva già fatto in Like Father, Like Son, ma mentre lì lo spettatore era comodamente assegnato agli impercettibili saliscendi della commedia, in Shoplifters lo spettatore viene dapprima istigato alla benevola indulgenza verso questi simpatici marginali, per poi venir messo alla prova con un’inversione cognitiva e morale di 180 gradi. Se la famiglia è indifferentemente sospesa tra l’esserci e il non esserci, tra legame interiore e esteriore, tra il dentro e il fuori, a maggiore è lo spettatore a dover provare sulla propria pelle questa doppiezza, normalissima e lacerante al tempo stesso.

Palma d'oro al Festival di Cannes 2018.