Commedia, Sala

TUTTI VOGLIONO QUALCOSA

Titolo OriginaleEverybody Wants Some!!
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2016
Genere
Durata117'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Negli anni Ottanta un gruppo di matricole del college, che sono giocatori di baseball, cercano di farsi strada nel delicato momento che li conduce verso l’età adulta.

RECENSIONI


Nell’incipit di Slacker, logorroica opera seconda che lanciò al Sundance il giovane Richard Linklater, è lui in persona a piazzarsi sul sedile posteriore di un taxi e ad ammorbare il conduttore con la sua bizzarra teoria: se fosse rimasto alla stazione dei pullman, forse avrebbe incontrato una ragazza, forse tutta la sua vita sarebbe cambiata, forse sarebbe proprio dovuto restarci, in quella stazione dei pullman. Perché “ogni pensiero che abbiamo crea una realtà”. Tutto il film procedeva poi a inverare questa affermazione, slittando di pensiero in pensiero, di personaggio in personaggio, ricominciando ogni volta come un film diverso a seconda della conversazione che i giovani protagonisti intavolavano. Quello di Linklater è il cinema delle possibilità, delle porte girevoli fino alla frenesia, della moltiplicazione stordente degli “e se…?”: la sua apparente cifra di adesione al vero, di registrazione della realtà in divenire (i pedinamenti di Slacker e della trilogia di Before, il film lungo una vita di Boyhood, i lavori sulle improvvisazioni degli attori), è invece la spinta impossibile a catturare con la macchina da presa non quello che sta succedendo ma tutto quello che potrebbe succedere. Ecco allora la realtà visionaria e frammentata di Waking Life, quasi uno Slacker animato; ecco la commistione compulsiva dei registri (Fast Food Nation e Bernie, esempi di commedia/ dramma/ mockumentary/ documentario senza apparenti segnali a marcarne gli slittamenti); ecco l’ossessione per i romanzi di formazione sui generis, quelli che ritraggono il protagonista in procinto di, sull’orlo di, appena prima di cominciare a.
Ed ecco i giovani atleti di Tutti vogliono qualcosa, che per la critica tutta è “il sequel spirituale di La vita è un sogno” (perché le matricole liceali di quel film, ambientato nel 1976, potrebbero essere gli amici delle matricole universitarie di questo, ambientato nel 1980), ma che per Linklater è “il sequel di Boyhood: perché quello finiva con un ragazzo che stava per cominciare il college e per conoscere una ragazza”, ma l’autore approssima per difetto. Tutti vogliono qualcosa è infatti, potenzialmente, il sequel di almeno metà dei suoi film, a partire dalla misconosciuta opera prima It’s Impossible to Learn to Plow by Reading Books (lo trovate integralmente su youtube, qua), dove un giovane studente si barcamenava tra cinefilia e appartamenti sguarniti, fra viaggi in autobus e vecchie VHS, evidentemente in attesa che la sua vita cominciasse, che si definisse. E così è per Jake e i suoi compagni di squadra, tutti al college grazie a una borsa di studio sportiva – giocano a baseball, ossessione ricorrente del regista che gli ha dedicato un documentario e la pigra commedia Bad News Bears -, dunque poco certi di cosa realmente debbano fare nell’ambiente universitario: “hai già scelto che indirizzo prendere?” è la domanda che ricorre, fra una canna e un homerun, fra un ballo e una sveltina, di pari passo col countdown in sovrimpressione che ricorda allo spettatore quante ore manchino all’inizio dell’anno accademico per i baldi giovani. Come sempre a Linklater non importa tanto a ricerca identitaria, quanto la descrizione di quel magnifico, terrificante limbo in cui ancora ogni identità è possibile: Jesse e Celine che si salutano in stazione a Vienna e potrebbero essere, ma anche non essere mai, marito e moglie; Mason che guarda l’orizzonte alla fine di Boyhood e potrebbe iniziare il college, ma anche partire, per fare il fotografo o qualsiasi altra cosa; le matricole di La vita è un sogno che tornano a casa dopo l’ultimo giorno di scuola e sentono distintamente che possono ancora fare tutto, essere tutto ciò che vogliono.


Così Jake, Finnegan, McReynolds e il resto della squadra ondeggiano felicemente in quel limbo; uno spettro di possibilità che Linklater orchestra, questa volta, con simmetria e teatralità, lasciando spazio, sì, alla spontanea fisicità dei suoi protagonisti (tutti semisconosciuti, tutti provenienti dalla televisione e alcuni dall’agonismo sportivo: il baffuto Tyler Hoechlin era davvero un giocatore di baseball, lo strafumato Wyatt Russell giocava a hockey, sono corpi levigati e atletici, malleabili, privi di passato), molto meno all’improvvisazione (tutto è accuratamente cronometrato; perfino, crediamo, il bel numero cantato che accompagna i titoli di coda, luogo del film che difficilmente Linklater abbandona ai soli crediti), scandendo invece con precisione il racconto nella serie di quadri narrativi, ciascuno rappresentante un possibile ambiente di appartenenza, un plausibile futuro in cui accomodarsi. La discoteca e le ragazze facili; il locale country e la filosofia da cowboy; la festa punk e i giovani rabbiosi; il campo da baseball e l’annesso spogliatoio; il party degli studenti di belle arti, pseudo intellettuali e artistoidi. Facendo base alla casa/tana/incubatrice dove vivono spalla a spalla, i ragazzi fanno tappa in ognuna di quelle diverse situazioni, cambiando vestiti, copricapi e battute d’abbordaggio a seconda dell’atmosfera, come bambini che ancora giochino a fare i grandi. Anche l’identità sessuale è ancora aperta a possibili sviluppi: ben lungi dall’essere accidentale, il sottotesto omoerotico dell’amicizia da confraternita è volutamente diffuso da Linklater in tutta l’opera; cresciuto artisticamente sotto l’ala del critico dell’Austin Chronicle George Morris, morto di AIDS nel 1989 (alla sua memoria è dedicato Slacker), il regista afferma di aver imparato insieme a lui a prestare attenzione alle tensioni omosessuali sottese a tanti film, e la mancanza di attrito fra le sequenze in cui i protagonisti di Tutti vogliono qualcosa si accoppiano compulsivamente con le ragazze appena conquistate e quelle in cui, invece, godono palesemente di un’intimità fisica al maschile (una su tutte: il bagno nel fiume sui ciambelloni), ci sembra ulteriore conferma della gaudente, irripetibile situazione di apertura e di non-definizione di sé in cui Linklater ama fotografare, far sguazzare, i suoi personaggi (la cui super-eterosessualità, la posa machista e strafottente, è d’altronde teneramente presa per i fondelli fin dall’inizio, proprio per la sua ridondanza).


Nato in Texas, come i di poco più giovani Kevin Smith (che ha direttamente ispirato) e Wes Anderson, anche Linklater fa parte di quella generazione di autori americani che ha fatto del cinema un mezzo per parlare di una classe privilegiata quanto bloccata, di eterni adolescenti imbevuti di cultura pop e di troppo cinema, di un approccio alla vita reso difficile dalla mancanza di esperienza reale e dall’eccesso straripante di esperienza mediata, di fruizione non-stop di immagini. E se per Smith e Anderson, in modi solo apparentemente agli antipodi, la scelta è stata rappresentare quei ragazzini mai cresciuti circondandoli di citazionismo sfrenato (Smith) e di mondi fittizi confezionati su misura (Anderson), la via intrapresa da Linklater è quella più paradossale e più dolente: il risultato finale della girandola di opzioni e di strade aperte che aleggia intorno ai suoi personaggi è una insuperabile stasi, un non-movimento (Jake, Finnegan e soci non fanno che tornare, dovunque vadano, al loro nido; proprio come i protagonisti di Suburbia, incollati allo stesso muro; come già Linklater nei panni di personaggio principale in It’s Impossible…, perennemente in viaggio su treni e bus che lo portavano sempre allo stesso appartamento). Forse nessun regista americano della sua generazione è più consapevole di Linklater di quanto il mezzo cinematografico possa catturare l’inerzia (e per questo forse, il suo cinema ci appare da sempre mancante di sguardo, di tagli, di regia perfino: come se perfino la macchina da presa fosse preda di quella paralisi), il malessere tragicomico di questi maschi bianchi, protestanti e benestanti, che possono essere ciò che vogliono e non diventano niente: il languore dei sobborghi (quasi tutti i suoi film sono ambientati nel suo natio Texas, così distante, culturalmente, dalla vivacità delle due coste statunitensi), il divertimento coatto (Jake e soci vanno alle feste anche quando non vogliono), lo sport come unica via di fuga per realizzarsi; sono questi i retrogusti amarissimi di un film che, a una prima occhiata, pare un inno gioioso alla vita, alla gioventù, al fancazzismo. Ma più del giovane Jake, che dopo tre giorni di baldoria, giunto in classe, finalmente si addormenta, e forse sogna la vita vera, il personaggio chiave del film è Willouhgby, l’appassionato di cannabis e Pink Floyd che, scopriamo a metà film, in realtà ha già 30 anni e si finge studente, rimbalzando da un ateneo all’altro, pur di non abbandonare mai quel limbo dorato. Pur di non dover mai lasciare quello spazio imprendibile, destinato al nulla ma foderato di possibilità, cui Linklater ha votato il suo cinema.