
TRAMA
Laura ritorna nel paese della sua infanzia per partecipare al matrimonio della sorella. Lasciata anni prima la Spagna per l’Argentina, è sposata con uomo che non ama più e ha due figli che ama sopra ogni cosa. Nella provincia della Rioja con gli affetti più cari ritrova Paco, amico della giovinezza e compagno per una stagione. L’accoglienza è calorosa, il matrimonio da favola, i festeggiamenti esultanti, i gomiti alzati ma la gioia lascia improvvisamente il posto alla disperazione.
RECENSIONI
Il passato è la chiave di lettura del cinema di Farhadi: le sue storie narrano di relazioni personali vagliate attraverso lo spettro del tempo (non sorprende che Le passé fosse anche il titolo del suo film francese). E che il tempo trascorso sia l’angolazione dalla quale leggere anche la vicenda messa in scena in questo film lo dice spudoratamente l’immagine iniziale: la torre campanaria, l’orologio dall’interno, il suo meccanismo a vista. Il nodo della faccenda risiede infatti in una vecchia storia d’amore, mai realmente sepolta, la cui ombra si allunga sul presente, creando sospetti e dubbi, sollecitando letture alternative dei rapporti attuali. In quella scritta incisa sul muro, nel campanile, nelle iniziali di Laura e Paco [1] (e in Irene che la legge) c’è il cuore del racconto.
La prima mezz’ora (l’arrivo di Laura per il matrimonio della sorella) funge da preambolo che introduce i personaggi e crea l’ambiente nel quale irromperà il trauma; la struttura del film, in questo senso, è molto simile a quella di About Elly la cui storia si sviluppava all’interno di una casa in un lasso di tempo contenuto: l’improvvisa scomparsa di una ragazza, innescando confronti e scontri tra i personaggi, rendeva cangianti le sfumature della colpa. Anche in Tutti lo sanno Farhadi parte da una sparizione (stavolta si tratta di un rapimento), per mostrare come viene gestita, quali meccanismi interpersonali fa scattare: lo spettatore ha sempre un ruolo attivo, chiamato com’è a riflettere su apparenze, inganni, non detti, a interpretarli secondo il proprio metro di giudizio.
[1] Il regista ha dichiarato di aver giocato sulla reale relazione tra Cruz e Bardem (e sul fatto che questa è nota al pubblico) come elemento subliminale, una consapevolezza che opera sottotraccia.
I sospetti si intrecciano, toccano persino il padre della rapita, laddove una rivelazione di ben altra portata (e che concerne, prevedibilmente, proprio la questione della paternità) conduce a una lettura corretta degli avvenimenti, spiegando anche la dinamica del sequestro, il modo in cui è stato organizzato e portato avanti: persone al di fuori della ristretta cerchia del nucleo sono state coinvolte per alimentare tensioni, suscitare gelosie e portare i nodi del passato al pettine. Così, anche in questo film, lo shock generale serve a rivelare le ferite personali di ognuno e a metterlo di fronte alle sue responsabilità: non è importante il giallo (che nelle opere dell’autore è puro espediente), ma il groviglio relazionale che fa emergere, perché, al di là della soluzione del caso criminale, la realtà si scopre puntualmente sfaccettata (ricordate il finale incerto di Il passato?).
Farhadi come al solito è abile nel concertare il complesso dei personaggi, nel creare situazioni in cui possano mettersi l’uno contro l’altro in territori moralmente ambigui e passibili di letture equivoche, legando lo spettatore al thrilling interiore, facendolo dibattere tra più ipotesi: in questo senso Tutti lo sanno è, come Le passé, l’esportazione in terra straniera di un format autoriale, opportunamente adeguato alle caratteristiche geografiche e culturali del contesto prescelto, dimostrazione che, nella rete della sua maniera, quelli dell’iraniano sono racconti morali che raccolgono riflessioni universali sul travestimento della verità che sfociano in considerazioni valide non solo a Teheran. Con un affondo interessante (perché così contemporaneo e sintomatico) sulla rilettura degli avvenimenti: l’analisi del filmato della festa di nozze fotogramma per fotogramma (un altro passato: prossimo) sottintende una paranoia, determina una superfetazione di significati su immagini (riprese da un occhio oggettivo: il drone) che magari non ne celano nessuno particolare.
Peccato che la storia venga tirata per le lunghe, che si torni su certi punti senza alcun costrutto o sviluppo ulteriore (e non mi riferisco certo alla banalità delle conversazioni, che leggo, al contrario, come una scelta naturalista), laddove uno dei talenti perversi del Farhadi sceneggiatore è sempre stato quello del graduale e implacabile rilascio dei colpi di scena. Insomma Tutti lo sanno conferma il consegnarsi fiducioso del suo cinema al meccanismo, a un teorema che, esaurendo il film, ne decide anche le sorti, a un complesso di situazioni inevitabilmente forzate, indirizzate spudoratamente verso certe direzioni (Il passato e, soprattutto, Il cliente da questo punto di vista ne sono l’espressione parossistica, con i personaggi letteralmente comandati dallo script). A quel punto, quanto più sono profondi e avvincenti i drammi e le problematiche innescati dalla dottrina Farhadi, tanto più il film suonerà riuscito: Una separazione è il suo migliore proprio perché sfodera un concatenamento di dilemmi di precisione matematica. Un cinema tutto di scrittura e interpretazioni, dotato di un'acuta intelligenza nel calcolo spettacolare, che si affida molto (troppo, mi verrebbe da scrivere) alla funzionalità dei suoi ingranaggi narrativi. Un cinema che stavolta riscatta felicemente il mystery attraverso una struttura più leggera e vivace (la bella sequenza del banchetto) e che più che al dubbio (e alla sua facile, prevedibile suggestione) apre il pubblico alla speculazione sul modo in cui ciascuno dei personaggi gestirà sé e il suo rapporto con gli altri alla luce delle ferite inferte dalle rivelazioni.
