Commedia

TUTTA LA VITA DAVANTI

TRAMA

Marta, brillante neolaureata in filosofia teoretica con 110 e lode e abbraccio accademico, finisce a lavorare nel call center di un’azienda che vende un inutile elettrodomestico…

RECENSIONI

Sguardo ironico, cinico e disincantato sull’attualità socio-politica, tematizzazione (e stigmatizzazione) delle ripercussioni sul tessuto sociale e “umano” dell’evo/invo-luzione della realtà economica (e lavorativa) contemporanea, messa alla berlina dei vizi (rectius: inciviltà, sintomatologie degenerative) degli italiani, intenti didattico/moralistici che diventano denuncia e (quindi) film che si propongono anche come momenti di riflessione e “dibattito”; scendendo nello specifico filmico: impianto drammat(urg)ico forte, tipizzazione di personaggi non privi di psicologia propriamente detta, costruzione di intrecci e snodi narrativi schiettamente significanti e spesso iperbolici, regia attenta ma non invadente al servizio dello script e degli attori. Se mi si perdonano le inevitabili generalizzazioni e semplificazioni connaturate all’esigenza di sintetizzare il discorso, per arrivare finalmente al dunque, questi sono i codici, le cifre, gli stilemi della commedia all’italiana ai quali la coppia Virzì/Bruni è sembrata da sempre ispirarsi in maniera quasi sistematica (scientifica?) e ai quali ha saputo ridare smalto, dignità e autorevolezza dopo circa un ventennio (metà anni ’70 – metà anni ’90) di banalizzante declino. Cinema “consapevolmente” di Genere, dunque, del Genere italiano per antonomasia. Ma non un cinema immobile o sclerotizzato. E’ possibile, mi pare, individuare un percorso nel cinema di Virzì, percorso che dalla scintilla di ottimistica speranza che chiudeva La bella vita porta al clima (post)apocalittico di Tutta la vita davanti, passando per la solidarietà umana/interpersonale che smussava gli spigoli di Baci e Abbracci, per protagonisti amaramente sconfitti dalle circostanze (il Piero Mansani di Ovosodo), poi ingenui non completamente consapevoli (il Tanino di My name is...) e quindi del tutto lirici e surreali (Caterina va in città)quasi a sancire una lotta di retroguardia sempre più “retro” e sempre meno “lotta”. Per approdare alla filosofa teoretica Marta, che osserva e racconta semplicemente, ma iper-consapevolmente, la Fine. Ecco, mi pare che questa volontà di tornare su un discorso/percorso “caro” (il mondo del lavoro) e in qualche modo di riassumerlo e ricapitolarlo per scriverne l’epilogo (tragico), si senta molto, in Tutta la vita davanti. Forse troppo. “Troppa carne al fuoco”, si diceva una volta, con alcune macro-conseguenze: la prima è quella che porta alla forzatura dei “codici” di cui si parlava in apertura ai limiti del cedimento strutturale, con specifico riferimento alla costruzione dei personaggi e alla progressione drammatica; il ventaglio di figure che popolano il film è ampio, e tutte rispondono all’esigenza di rappresentare dei tipi che però vogliono evadere i confini della tipizzazione, dotandosi di una personalità il più possibile tridimensionale; così come le vicende, gli snodi narrativi che vedono tali personaggi protagonisti, rispondono anch’essi all’ossimorica esigenza di generalizzare e insieme circostanziare il discorso. Il tutto pensato, non dimentichiamolo, per un pubblico attento sì ma pur sempre “generalista”, che Virzì e Bruni si guardano bene dallo “spaesare”. Accade così che questa sorta di ipertrofia del racconto cinematografico si risolva in momenti dalla densità narrativa elevata e/ma ridondante: si pensi alla figura della madre di Marta; la Morante, in voice over, la introduce connotandola come temuta professoressa di latino e greco, il personaggio della badante si affretta ad aggiungere che i suoi studenti comunque la rimpiangono (è temuta ma stimata – severa ma giusta), lei stessa tesse le lodi del mestiere di insegnante (è dunque una professoressa temuta, stimata, che ama sinceramente il suo lavoro) il suo comodino è sovrastato da una fin troppo alta pila di libri (non solo ama il suo lavoro, ma è una donna “culturalmente attiva” anche nella vita privata), dice alla figlia “prendi la busta sotto la Ginzburg” (sappiamo già che legge moltissimo, ora ci facciamo un’idea anche sul “cosa” legge) e la sequenza si chiude con la sua richiesta di fumare un po’ di marijuana (ultimo tassello, polisemico: è una persona colta, per molti versi “all’antica”, ma anche aperta e moderna – e/oppure – è una persona malata, il suo concedersi “lussi” teoricamente fuori contesto rispetto al personaggio ci fa entrare in empatica sintonia col personaggio stesso, preparandoci alla commozione per la sua morte verso la fine del film). Troppo per un’unica, breve sequenza: presentazione, tipizzazione, de-tipizzazione, problematizzazione, amore per il personaggio. E’ solo un esempio, ma trovo che questa “esigenza di concentrazione esemplificativa” divenga una sorta di qualità coestensiva al film, onnipresente, più o meno illocalizzabile ¹, che certifica la volontà di costruire un testo comunque non banale, a tratti anche colto, complesso e “positivamente contraddittorio” ma comunque accessibile a tutti. Il problema è che la continua compenetrazione di soggettivo e oggettivo, di generale e particolare, con personaggi/soggetti definiti e caratterizzati i cui “limiti” diventano però quelli della categoria di appartenenza (il sindacalista / il Sindacato, smontato/i e giudicato/i da Marta nella – di nuovo – breve e densissima sequenza dell’ufficio postale), rischia di soffocare il film con uno sviluppo narrativo fin troppo serrato e costruito, che rischia di suonare artefatto e, come dire, “scoperto”. Qui più che altrove. Perché se è vero che questo rischio è connaturato al (tipo di) cinema praticato da Virzì, è altrettanto vero che in passato si sono apprezzati risultati concettualmente omologhi ma globalmente migliori (si pensi solo alla complessità del personaggio di Castellitto in Caterina va in città, emblematico, comico, tragico, fiero e patetico, da amare e odiare in egual misura, capace di mantenere una sua coerenza interna anche quando la sceneggiatura lo rendeva protagonista di snodi narrativi apparentemente forzati). Rimane da chiedersi perché: in parte abbiamo già tentato di dare delle risposte (prima tra tutte la volontà di dire/fare “troppo”) ma ci sentiamo di formulare altre due ipotesi. Intanto c’è la scelta di affrontare un tema forte, preciso, attualissimo e dunque “ingombrante” (il precariato), che in un certo senso rischia di imporsi su tutto il resto; e poi c’è il già accennato clima “apocalittico”, totalmente pessimista, che se da un lato è indice di adesione sincera alla materia trattata e permette anche, ad esempio, di creare parallelismi suggestivi [il gioioso sogno musical(e) che apre il film, contrapposto al beffardo balletto che lo chiude], dall’altro priva il risultato finale di quella vis più specificatamente comica che, in passato, aveva contribuito a stemperare i toni e a mitigare le eventuali forzature ². E’ interessante constatare, però, come la quasi totale “assenza di risate” si manifesti chiaramente solo a pellicola conclusa, a posteriori, col senno di poi: segno evidente che il congegno narrativo, comunque sia, funziona. Un’ultima nota su una sequenza, sorta di splendida sineddoche dell’intero film: la prima, assurda danza motivazionale pre-turno della neo-laureata neo-assunta Marta, molto ben orchestrata con l’alternanza tra totali del call center e primi piani della brava Isabella Ragonese, è di sublime, grottesca tragicità e dice già veramente tutto.

Dopo la parentesi napoleonica, Virzì torna al cinema che sa fare meglio, mutuato dalla commedia all’italiana, critica dei costumi contingenti ma meno bozzettistica, più amara, più magicamente tesa a ricomprendere le dinamiche di un intero Sistema Sociale nelle maglie di un racconto esemplare. Qui prende le mosse dal libro “Il mondo deve sapere - Romanzo tragicomico di una telefonista precaria” di Michela Murgia (2006) e, con modi Fantozziani (il grottesco mondo impiegatizio, la critica di costume, gli sprazzi surreali) ma meno farseschi, dipinge il precariato dei co.co.pro., additando non tanto gli imprenditori o i quadri senza scrupoli, dipinti anche nel loro vissuto doloroso (Virzì non è mai manicheo: vedi la follia della team-leader di un’eccellente Sabrina Ferilli; l’imprenditore di Massimo Ghini scacciato dalla moglie siliconata), ma un Sistema che (per)mette il “capitalismo selvaggio” nelle mani di emeriti ignoranti, dando loro come unico modello la fatuità del piccolo schermo. Il tocco geniale della pellicola sta nelle assonanze che rinviene fra modi aziendali e reality show come il Grande Fratello, dove contano solo l’apparenza, la motivazione, gli psicodrammi artificiosi di gruppo, la coatteria fatta valore. Le vittime sono gli spettatori/dipendenti meno scaltri, più ingenui (la bella e brava Micaela Ramazzotti, ragazza madre; il venditore di Elio Germano, il cui unico scopo di vita è essere il migliore), mentre la protagonista, avendo studiato, sa riconoscere le manipolazioni (e ne diventa l’araldo: grande idea).