Documentario, Drammatico, Recensione

TUTTA LA MIA VITA IN PRIGIONE

Titolo OriginaleIn Prison My Whole Life
NazioneU.S.A./ Gran Bretagna
Anno Produzione2007
Durata94'
Tratto daliberamente ispirato al libro In diretta dal braccio della morte di Mumia Abu-Jamal
Fotografia
Montaggio

TRAMA

Il caso Mumia Abu-Jamal, da oltre 25 anni in attesa dell’esecuzione.

RECENSIONI

Alludere, indottrinare, convincere. In prison my whole life, visita guidata sul tumulto sociale americano (Where: Pennsylvania, When: ‘70/80), è una passeggiata, sul marciapiede sinistro, dentro il Movimento e i suoi ammennicoli: contestatori, marce, spranghe ma anche proclami, spillette, radio libere. Da qui trasmette Abu-Jamal che, malgrado il trapasso a venire, non smette di descrivere le iniquità che innervano il Paese e confidare nel riesame del verdetto. Lo sceneggiatore William Francome è nato lo stesso giorno dell’arresto e afferma: “Vado a incontrare l’uomo che ha vissuto in prigione tutta la mia vita”. Quindi il documentario/inchiesta espande, mediante il criterio dell’“intervistatore in campo”, con Francome a interloquire con e contro i suoi interpellati. A scopo solamente dimostrativo. Su base metodologica, infatti, viene subito evidenziata una contiguità di pensiero tra tutte le voci, a mo’ di strategia stilistica, talvolta giustificata come obbligatoria (il Philadelphia Police Department ha rifiutato di rispondere): è un bombing fazioso che rade al suolo il dubbio e annienta l’analisi. A livello rappresentativo, invece, Marc Evans si applica nel vivificare la materia; distintivo l’innesto del digitale, a riepilogare certi scenari, per fare chiarezza – dove il fatto non suona esplicito, si schematizza la realtà per esibire la “prova” – ma anche, curiosamente, a pilotare l’esordio di nuove figure sulla scena. Siamo già in piena “retoricizzazione”. Stanti queste premesse, però, va rilevato il flusso incrociato di suggestioni che si alternano e contrastano: da una parte l’abuso di risorse ampollose, come gli zoom sull’american flag, a segnalare un malinteso senso del provocatorio, e la faticosa (per lo spettatore) esposizione dei sottintesi per via visiva e verbale (il countdown, la telefonata di Mumia), insomma il “rischio catechismo”; dall’altra rare parentesi illuminate, che centrano il punto del discorso (Chomsky: “Il terrore funziona”) all’insegna di un’acidissima ironia (la statua di Rocky Balboa) e di una rinnovata sintesi semantica – la divisione in fazioni, scolpita con secchezza linguistica: Free this manFry that nigger. Ultimi indizi di valore, infine, rilucono allo sguardo metatestuale e restano semi-inconsapevoli nel tessuto: il ruolo del regista, già autore di My Litte Eye, il gallese Evans come legal alien negli States, che osserva filmicamente il reale con sgomento primitivo e ripropone dunque la stessa scioccante sequenza – la repressione dei Move nel 1985, a dire: come può accadere una cosa del genere? -; l’occultamento di Abu-Jamal, il quale si può incontrare, ipotizzare, immaginare, ma su disposizione pubblica non può essere ripreso. Il fuori campo è forzato, il cinema limitato per legge. Note generali. La terra del documentario Usa continua a essere una free zone dall’offerta composita; a vocazione sociale/politica, incline a riscrivere il presente (l’academy award Taxi to the dark side) o inquadrare il passato per poi alludervi, dallo specifico all’universale, “a tesi” generalizzata, con crescendo ringhioso e conclusioni granitiche; ma anche rivolta alla Storia Americana, declinata in tono manicheista, e impegnata con grandi mezzi – altresì estetici – a stimolare consensi settoriali, sdegnosamente ancorata ai propri afflati retorici e autoreferenziali. Il film di Evans ne contiene luci e ombre ma non bagliori e ombreggiature, ignora le mezze misure, sfiora la sottigliezza zero e teme il paragone spietato; a confronto, si rischia di stimare Michael Moore come un arguto indagatore, Alex Gibney un disvelatore di meccanismi, Errol Morris un perito entomologo.