Commedia

TUTTA COLPA DELLA MUSICA

TRAMA

Giuseppe, un uomo di mezza età appena andato in pensione, scopre che la vita può riservargli ancora una seconda giovinezza grazie ad Elisa, una sensuale e allegra donna che incontra nel coro in cui viene introdotto dall’amico Nappo.

RECENSIONI

Esiste la cattiva televisione, quella consolatoria, moralista e rassicurante che descrive personaggi che nella realtà non rappresentano nessuno. Ed esiste un cattivo cinema, che a quella televisione, tutt’altro che illuminante, pare ispirarsi. Tutta colpa della musica colpisce per la distanza tra le ambizioni - raccontare amori senili, amicizie, passioni salvifiche, lo scorrere della vita tra ombre e luci – e il risultato. Al di là della messa in scena, che si limita a filmare la sequenza degli eventi, ciò che risulta presto insopportabile è l’assenza di reale problematicità con cui ogni conflitto trova la sua facile disamina. Tutto si risolve a suon di luoghi comuni che abbracciano i giovani (tra cui la cantante Arisa, in un esordio non memorabile) come gli anziani.

Davvero si può credere all’uomo in pensione che “trallallero trallallà” abbandona di colpo la famiglia dove ogni membro è testimone di Geova (rappresentati come un branco di cerebrolesi) e si rifugia dall’amico donnaiolo per poi innamorarsi della soprano che incontra alle prove del coro di paese? Ma negli anni precedenti la pensione dov’è stato? Un amico del cuore, poi, viveur impenitente che andando a “fagiane” ha trovato una ragazza dell’est sciocchina e profittatrice che definire caricaturale è piuttosto riduttivo? Gli stereotipi fanno parte dei tratti fondamentali della commedia all’italiana, ma qui si supera il senso della misura e ogni personaggio non ha il minimo spessore e si aggira con il suo aggettivo di riferimento stampato in fronte tra gag fruste che non fanno ridere nessuno. A meno di non sbellicarsi per scambi tipo “Ci credi al colpo di fulmine? No! Ma al colpo della strega sì!”, oppure a battute come “Tu sei un extra-stronz”, o a pillole di saggezza come “chi mena il culo come una quaglia o è una troia o poco si sbaglia”. Poi basta con questi uomini allupati cronici che senza una donna mangiano scatolette e vivono nel disordine e che appena vedono un paio di tette vanno in corto circuito ormonale. Per non parlare della rappresentazione femminile che vuole le donne eterne serve del Dio Maschio oppure predatrici senza scrupoli. Uno sguardo binario per nulla aderente al mutamento che i ruoli hanno subito nel tempo.

E dire che di spunti potevano essercene: un coro come gruppo di persone che condividono una passione, la necessità di non rinunciare a qualunque età alla propria felicità personale, il tradimento come via di fuga da una quotidianità insopportabile. Invece tutto si brucia in gag puerili, situazioni improbabili, banalità (il guasto dell’auto per far scoccare la scintilla), piacionerie (gli scambi sopra le righe tra Messeri e Tognazzi), approssimazioni (le prove del coro, dove impera il buona la prima per cui tutti arrivano, fanno una cantatina, ridono e se ne vanno, ma quando mai funziona così? Si chiamano prove del coro proprio perché si prova!!!), product placement a go-go tutt’altro che discreti, e dialoghi protesi a spiegare ogni singolo stato d’animo per il timore che lo spettatore, chissà perché, non capisca l’evidenza. In assenza di guizzi, lontano da qualsiasi riferimento al contesto sociale e senza leggerezza, ironia, o simpatia. Perché fare i simpatici non equivale a esserlo. Un vero disastro, insomma. Che con la musica, tra l’altro, ha ben poco a che fare.