Biografico, Recensione

TURNER

Titolo OriginaleMr. Turner
NazioneGran Bretagna/ Francia/ Germania
Anno Produzione2014
Durata149'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Le opere e i giorni di Joseph Mallord William Turner (1775-1851), dagli anni della maturità alla morte.

RECENSIONI

Mike Leigh celebra uno dei maestri della pittura inglese con un film strabordante (fin dalla durata) e insieme sfuggente, letteralmente eccentrico. Non ricapitolazione, tanto meno celebrazione di una parabola artistica, bensì passeggiata in un sontuoso e labirintico cabinet d'amateur: gli episodi della vita del pittore, pur rispettando l'ordine cronologico, sono accostati in modo solo apparentemente caotico, in effetti calibrato quanto sornione, con lo sguardo dello spettatore libero di vagare (sapientemente condotto) da un quadro all'altro, di esplorarne il superbo artificio con tutta la calma necessaria. Confesso, con non poco imbarazzo, che non mi sento in grado di proporre, su una simile materia, una recensione, se per recensione si intende un resoconto, il più possibile completo ed onesto, di un film. Posso offrire al massimo una manciata di impressioni, anche perché la densità, visiva non meno che concettuale, di Turner promette di accentuarsi, anziché evaporare, a ogni successiva visione. La prima, forse la più banale, delle annotazioni è che Turner risulta, prima e più di ogni altra cosa (omaggio, ricordo, riflessione sulla pittura o sulla storia patria), un film di Mike Leigh, vale a dire un film su una figura enigmatica, perennemente sfuggente, e su una famiglia (dis)funzionale (la vita con l'anziano padre, i tormentati rapporti con le donne), elementi a tal punto intrecciati da risultare inscindibili. Padri e figli vivono in simbiosi eppure fatalmente separati, dal Tempo (il ricordo della madre), dagli spazi e dalle convenzioni sociali (il dialogo - se così vogliamo definirlo - con Mrs. Danby), l'affetto e la devozione assumono le tinte più cupe (la muta, incrollabile devozione della serva/amante/vittima). L'invocazione della Didone di Purcell, Remember me, but ah! Forget my fate, collocata con felpata grazia in una delle prime scene, esplode in tutta la sua drammaticità nel cristallizzato orrore del finale 'luministico'. Al pari del sottovalutato Topsy Turvy, il film è immerso in un Ottocento che allude al presente, non attraverso vacui anacronismi, ma grazie alla natura stessa di un'epoca di scontri avvelenati, malgrado il nitore delle apparenze e la correttezza delle forme (e dei formalismi), tra conservazione e modernità. Al pari di Gilbert e Sullivan, Turner è una figura troppo ingombrante e in anticipo sui tempi per essere compresa fino in fondo dai suoi contemporanei: la parabola del pittore Benjamin Haydon, confinato ai margini della scena della Royal Academy (un bellissimo campo lungo lo vede uscire letteralmente di scena, scortato e 'sepolto' dai taglienti giudizi dei colleghi), prelude al progressivo sgretolarsi della reputazione dello stesso Turner (il ben poco illuminato giudizio della Regina, che riconosce comunque all'artista una patente di individualità, si ripercuote rapidamente nel cicaleccio degli 'intenditori' e degli spettatori comuni). Non meno crudele nella sua allusività, e al tempo stesso ritratta senza acrimonia e con una punta di divertito distacco, la figura del giovane John Ruskin, emblema di una critica più preoccupata di esprimere il proprio nulla che non di comprendere il mistero che pervade ogni atto creativo.

Turner è, soprattutto, un film imbevuto e intessuto di luce, quella piena del sole in tutte le ore della giornata (con ovvia predilezione per albe e tramonti, che segnano, fin dal prologo olandese, i momenti di passaggio dell'opera e il trascorrere del tempo), un'opera che utilizza il digitale non per annullare la distanza fra spettatore e schermo, ma al contrario per enfatizzarla. Come il prisma scompone la luce solare, così la 'grana' del digitale evidenzia l'asperità delle superfici, la porosità dei materiali e degli arredi, mentre lo schermo si affolla di forme cangianti e policrome, dispiegate senza alcuna 'necessità' che non sia quella dettata dal piacere della composizione (emblematica, in questo senso, la scena della mesticheria, ininfluente ai fini del racconto, essenziale per apprezzare, fin dall'incipit, la 'materia prima' del film). In questa inesausta ricerca, davvero pittorica, risiede il fascino duro e ostile di un film orgogliosamente 'vecchio stile', magniloquente e laconico, grezzo e angoloso, dominato dalla musica del silenzio e dei colori. Un'opera smisurata, almeno quanto il suo interprete principale.