TRAMA
Sullo sfondo di un Impero Britannico ai suoi ultimi anni di vita, la storia generazionale di una famiglia indiana si lega alla leggenda di un Dio decaduto in grado di donare ricchezze infinite.
RECENSIONI
«Di ferro forgiato è la veste umana,
Un’ignea forgia l’umana forma,
Ermetica fornace il volto umano,
Sua avida gola è il cuore»
William Blake – Una divina immagine
Tumbadd racconta dell’incontro tra due reietti, uno umano e l’altro divino, due figure scacciate e non volute accomunate da un’avidità insaziabile: Vinayak è il figlio illegittimo di un capo villaggio, un ragazzo abbandonato dal padre e costretto dalla madre a vegliare sulla nonna malata, corrotta da un qualche incubo indicibile; Hastar è invece un dio leggendario figlio della Dea Madre dell’Abbondanza, da cui è stato punito per la sua cupidigia e condannato a scontare il suo esilio dentro un ventre sotterraneo, con il particolare di una cintura attorno al corpo colma di infinite monete d’oro. Le vicende dei due si intrecciano nella storia famigliare di Vinayak, segnata dalla conoscenza del mito di Hastar e dall’avidità che questa continua a suscitare, una fame di ricchezze che si tramanda virale di generazione in generazione e inchioda la famiglia in quello che sembra un eterno ritorno. L’ossessione di Vinayak inizia del resto dal contatto con la nonna, trasformata ormai in una furia di fame e sangue dai suoi peccati; da lì il ragazzo intraprende il suo percorso scegliendo la stessa strada di avarizia. Tuttavia il nipote sarà più furbo, Vinayak troverà il modo di ingannare Hastar per tornare a rubargli, periodicamente, la sua eterna fortuna. Tutta la sua vita sarà costruita su questo segreto, fino a quando cercherà di insegnare a suo figlio come depredare un dio credendo di non pagarne il prezzo.
Opera prima dei due registi indiani Adesh Prasad e Rahi Anil Barve, Tumbadd ha aperto la 33° edizione della Settimana della Critica a Venezia 75, una scelta coraggiosa e decisamente efficace che valorizza un cupo racconto morale a metà tra il fantasy e l’horror, un esempio di come si possa giocare con il genere e i suoi ingredienti andando comunque a toccare i centri nevralgici della storia politica di un paese. Tumbadd infatti si articola su tre piani temporali – 1918, 1933, 1947 – che corrispondono ad altrettanti fasi storiche nel processo di liberazione dell’India dall’Impero Britannico, ormai disgregato a favore di un’India indipendente nel 1947. Tuttavia il percorso di disobbedienza civile intrapreso dalle forze progressiste – con a capo Gandhi, un cui aforisma sull’avidità apre il film – corre parallelo alle vicende di Vinayak, invisibile ai suoi occhi unicamente dediti all’oro di Hastar. Per Vinayak quel che conta è l’arricchimento personale e il potere che ne deriva, un’ossessione che nella sua genesi famigliare ci racconta di un paese in cui le forze democratiche sono totalmente scisse dall’interesse egoistico dei molti, singoli individui intrappolati in una prospettiva che si tramanda tra generazioni e non permette unione, vicinanza, legame sociale. L’India raccontata da Tumbadd è un paese in bilico, sedotto da sirene che decantano la ricchezza facile e coltivano nei cuori degli uomini nient’altro che desiderio insaziabile.
Pur essendo connesso alle vicende storiche indiane, Tumbadd schiva comunque ogni didascalismo per farsi favola morale tout court, racconto etico che esalta le capacità retoriche dell’horror per imbastire un cupo racconto di genere che ammonisce senza rinunciare mai ad intrattenere. Salvo una parte centrale con qualche problema di tono, Tumbadd gioca con la mitologia indiana reinventandola all’insegna dell’horror americano dei pieni anni Ottanta (vengono in mente Cronenberg e Raimi) evocato da suggestioni registiche che sanno far dialogare consistenti elementi digitali con iniezioni materiche degne del miglior grandguignol eighties. La carrellata di sangue ed effetti inizia con il corpo della nonna di Vinayak tormentato dalla maledizione, una florescenza di carne che prosegue poi con la soluzione visiva che fa da cardine a tutto il racconto: il ventre della Dea. È qui che Prasad e Barve giocano le loro carte migliori, fondendo corpo e ambiente in un set estremamente suggestivo ed efficace, il palco in cui si gioca periodicamente la sfida tra il protagonista e il suo dio reietto.