TRAMA
Anni Quaranta del ‘900. Tsili, una giovane donna ebrea, si nasconde in un bosco alla periferia di Czernovicz. Tutta la sua famiglia è stata deportata nei campi. Con l’istinto di un animale, si costruisce un nido nella foresta e sopravvive, senza far rumore, in piena zona di combattimento. Un giorno Marek scopre il suo nascondiglio. Si rivolge a lei in Yiddish e, quando scopre che anche lei è ebrea, si trasferisce con lei nel nido. Un giorno Marek si reca al villaggio in cerca di cibo, ma non torna più. All’improvviso, senza alcun preavviso, la guerra finisce e Tsili lascia il suo nascondiglio. Sul suo cammino incontra i sopravvissuti dei campi e insieme si dirigono verso una barca che li porterà in un’altra terra.
RECENSIONI
Con questo Tsili, tratto dal romanzo Paesaggio con bambina di Aharon Appelfeld, Amos Gitai ritorna finalmente ai livelli di una decina di anni fa, prima cioè del lungo passaggio a vuoto che lo portó, fra l'altro, ad essere quasi sempre escluso da gran parte dei maggiori festival internazionali (peraltro non del tutto immeritatamente). Figlio di un architetto del Bauhaus, egli è da decenni testardo alfiere di un modernismo cinematografico dalle forti valenze politiche. In cosa consiste il suo modernismo? Proviamo a riassumerlo nel modo che segue. Il mondo, e di conseguenza il racconto, è fatto a blocchi. Questi blocchi non possono comporsi armoniosamente tra loro, ma rimangono avulsi gli uni dagli altri. Se proprio vogliamo utilizzarli per comporre una figura ulteriore, allora l'istanza che opera questa sintesi trasformativa deve balzare in primo piano: deve diventare lei stessa uno degli ingredienti fondamentali del processo. Detto altrimenti, la cornice è già/sempre contenuta nel quadro: una figura non è data solo dalla somma degli elementi minimi che la compongono, ma anche da ció che, al di fuori di essa, attivamente li forza tutti fino a comporre la figura in questione. Gitai stavolta è alle prese con due blocchi non da poco. Uno è l'olocausto, l'altro è l'esodo in Palestina a guerra finita. Come spingerli uno verso l'altro? Come articolare l'uno con l'altro? Facendone un mito fondativo, ovvero fornendo allo Stato d'Israele un'aprioristica giustificazione attraverso l'olocausto? Certo che no. Tutto, in Tsili, va in direzione contraria rispetto a questa placida linearizzazione narrativa, che sarebbe naturalmente del tutto funzionale alla strumentalizzazione sionista dell'olocausto. C'è una storia, ma la sua linearità viene vigorosamente sabotata. Senza l'aiuto del romanzo di partenza, anzi, non è affatto facile decifrare ció che accade sullo schermo.
Per circa metà film vediamo una ragazza (Tsili) aggirarsi in un fitto bosco, nel quale rimane per lungo tempo, nutrendosi di bacche e riparandosi come puó. Viene raggiunta da un uomo (Marek) con cui stringe un rapporto molto intimo, non prima che lui abbia cercato di violentarla. C'è anche una terza donna, curiosamente vestita come Tsili, ma più anziana: è Tsili stessa, interpretata da un'altra attrice. Dai rari dialoghi, dai rumori inconfondibilmente bellici che si sentono in sottofondo, ma soprattutto dal monologo di Tsili (interpretata da una terza attrice) in voce over che sentiamo solo verso la fine della pellicola, si evince che i due sono scampati ai raid nazisti che hanno strappato le loro famiglie alle loro case (grossomodo tra le odierne Ucraina e Romania). Marek va in cerca di cibo, ma non torna più; dopodiché, vediamo Tsili correre via, fino a raggiungere le rive da cui centinaia di sopravvissuti ai campi si imbarcheranno, alla volta della Palestina. La Tsili del presente convive dunque, letteralmente, con la Tsili del futuro che ripensa alle esperienze passate. La cornice si conferma interna al quadro. E infatti, nelle lunghe sequenze del bosco, Gitai alterna senza soluzione di continuità totali frontali, fissi, a plongée dall'alto. Impossibile tenere fuori la cornice dal quadro; impossibile pensare allo snodo decisivo tra olocausto e fondazione dello Stato di Israele senza proiettare in quell'intercapedine il presente di noi che, oggi, ci pensiamo. La conferma definitiva di questo cortocircuito tra cornice e quadro arriva nella seconda parte: nel bel mezzo di quella che si direbbe una ricostruzione naturalista della partenza per la terra promessa, ecco una clamorosa zampata modernista, ecco un violinista che si para davanti alla macchina da presa, guardandoci negli occhi, e ripete nota per nota la melodia che avevamo visto sui titoli di testa, e sulla quale una ballerina vestita di bianco danzava su sfondo nero.
La coreografia, del resto, è la sostanza stessa di cui è fatto Tsili. Le sequenze, se non addirittura le singole inquadrature (molto spesso fisse), sono tendenzialmente indipendenti le une dalle altre. I bordi del quadro fungono di norma da “confine concentrazionario” dei movimenti degli attori: essi da un lato vengono minuziosamente orchestrati da un punto di vista ritmico e plastico (notevole il lavoro di scansione operata dal montaggio interno, che suddivide con rigore l'inquadratura in molteplici livelli nitidamente delineati dall'obbiettivo fino al fondo del quadro), dall'altro danno sempre l'idea di non poter andare da nessuna parte, di essere bloccati lí, di girare a vuoto in uno spazio invalicabilmente delimitato. E cosí, l'ultima scena, nell'improvvisato ospedale, vede vari personaggi gironzolare irresolutamente tra i corpi distesi, senza che questo vagare abbia una finalità; e non puó allora tornare alla mente l'aggirarsi di Tsili nel bosco. Al di qua come al di là del decisivo crinale della salvezza, proprio allo stesso modo, vi è solo l'essere consegnati inermi in balia del tempo, spietatamente vuoto e spazializzato. Nella terra promessa, pare dirci Gitai, bisogna portare questo. Bisogna portare il trauma, certo, ma non in quanto giustificazione mitologica di una qualche impossibile stabilità territoriale: Tsili, lasciata dai parenti deportati sola in casa con il compito di proteggerla, è costretta a fuggire a propria volta; costruisce un nido nel bosco ma abbandonerà anche quello. Tutto ha un limite, tranne l'erranza. Del trauma, bisogna attaccarsi al suo carattere di alienazione totale, di orfananza assoluta. È quello il lascito di cui non si puó fare a meno. Densamente allegorico, fino all'oscurità, Tsili immagina un'arditissima femminilizzazione di Israele: emblema non della militarizzazione permanente, ma della perenne irredimibilità del trauma, del radicalmente altro. Lo sa bene la sdoppiata eroina del film, che una volta scampata alla macchia, e pronta a fare ingresso nella salvezza, porta con sé il ricordo di Marek, porta con sé la consapevolezza di quel margine irrazionale dove tutti i confini sfumano in un'abissale, informe irrappresentabilità. Persino quelli tra vittima e aggressore.