

Estetica del paradosso: il cinema impassibile e laPuò un cinema di violente tensioni emotive essere declinato secondo forme rigorosamente impassibili? Può un cinema di corpi strutturarsi a partire dal vuoto? Può un cinema esplicitamente simbolico fare a meno del simbolismo? Sono queste le domande, fertili e contraddittorie, che scaturiscono dalla lettura di Tsai Ming-liang, studio monografico sottile e avvertito condotto sul filo del paradosso da Corrado Neri. Il giovane autore, docente di cinema all’Università Ca’ Foscari di Venezia, esplora l’universo tematico e stilistico del cineasta taiwanese armonizzando il metodo critico con le caratteristiche dell’oggetto analizzato: una commistione di lucido distacco e partecipazione trattenuta che si concretizza in un’argomentazione chiara e sorvegliata sempre suscettibile di trasformarsi in composta adesione, per poi ripiegare sull’osservazione limpida e distante. Un esempio paradigmatico: “Tsai sterilizza le forme, ma non certo i contenuti che rilevano la tristezza, la solitudine e l’impermanenza dell’uomo. Ma ogni tema, ogni conflitto è trattato con una distanza che diviene stile e poi linguaggio”.
La portata dell’approccio critico di Corrado Neri, tuttavia, non si esaurisce nell’analisi filmica – del resto sempre irreprensibile – ma si estende ai codici estetici e filosofici della cultura cinese, indicando promettenti direzioni di lettura e folgoranti intuizioni figurative. Prospettive multiple e parallele, composizione orizzontale dell’immagine, capacità di “accogliere la presenza e l’intima realtà del Grande Vuoto (taixu)” nella strutturazione dell’inquadratura: queste suggestioni visive provenienti dalla pittura tradizionale cinese sono presentate come categorie fondanti lo stile di Tsai Ming-liang. Categorie in grado di differenziarlo dal cinema taiwanese contemporaneo e, soprattutto, di allontanarlo dal pericolo di un mimetismo piatto e inerte, per farlo infine approdare a quello che Nöel Herpe ha superbamente definito “neo-realismo ossessivo” (“ove la visione si arricchisce dei propri limiti, ove la contemplazione ostinata del niente finisce – come in Rossellini – per fare affiorare l’essere”). Altro concetto paradossale.
In questo percorso analitico si inseriscono le accorte e puntuali considerazioni sul linguaggio filmico che riescono a restituire efficacemente la straordinaria complessità del cinema di Tsai Ming-liang: le figure del piano-sequenza, dell’inquadratura fissa, del surcadrage e del montaggio “antidrammatico” vengono osservate nella loro duplice valenza di fedeltà al concreto e stilizzazione astratta, aderenza al profilmico e trasfigurazione estetica, essenzialità fenomenologica e contemplazione trascendentale, lasciando trapelare tutta l’ambiguità e la sottile contraddittorietà che le permea. E sempre in questo quadro trovano spazio acute osservazioni sullo spiazzante connubio di tragedia e commedia: “Così tutta la filmografia di Tsai è percorsa da correnti sotterranee di humour nero, che sorge nei luoghi più inattesi: dalle manifestazioni irrazionali di passioni primitive dei suoi uomini-insetti, alla freddezza stralunata dei personaggi che si incontrano come fantasmi inquieti, alla durata sintomatica delle soste in bagno”. Ennesima evenienza del paradosso, insomma.
Ma è nel terzo capitolo, quello dedicato all’analisi degli oggetti e delle forme, che Corrado Neri sfodera tutta la sua conoscenza della cultura cinese e porta alle estreme conseguenze il carattere paradossale dell’argomentazione critica. Dissociando nettamente la pregnanza simbolica del cinema di Tsai dalla nozione occidentale di simbolismo (con Camus si puntualizza che “un simbolo, infatti, suppone due piani di idee e di sensazioni e un dizionario di corrispondenze fra l’uno e l’altro”), l’autore introduce il concetto squisitamente cinese di xieyi, definito “ritrarre il significato” o “descrivere il senso, l’idea, l’intenzione”. Gesto descrittivo e conoscitivo al tempo stesso, “scrittura d’idee”, lo xieyi designa “lo stile di pittura tradizionale a pennellate libere d’inchiostro” attraverso il quale l’artista, sfrondando l’apparenza delle cose, ne distilla l’essenza. In virtù di questo processo di depurazione stilistica, il reale non si carica di un significato posticcio, “ricevuto”, ma lascia affiorare, al contrario, il senso segreto che lo abita. Paradossalmente, c’è da domandarselo? Le analogie con la prassi estetica di Tsai sono davvero stringenti e suggestive.
Articolato in quattro sezioni nelle quali l’ampiezza dello sguardo critico si allarga progressivamente (si va dal piano ravvicinato su Tsai Ming-liang al totale sul Cinema passando per le misure intermedie dei Corpi ribelli e dei già menzionati Oggetti e forme), il volume ospita inoltre un’autentica perla: una conversazione col cineasta taiwanese che pullula di dichiarazioni di tecnica e poetica (sono forse scindibili?) letteralmente illuminanti. Impossibile resistere alla tentazione di riportare quasi integralmente la risposta del cineasta taiwanese alla spinosissima domanda Quando decide di tagliare? Tsai risponde: “Io riprendo ogni scena molto a lungo, perché non so neppure io chiaramente quando taglierò. […]. È in fase di montaggio che decido. Ma per Goodbye Dragon Inn ho avuto una sensazione strana: mentre giravo la lunga scena della sala vuota, non sono riuscito a dire: cut! Avevo già pensato dall’inizio di inserire una scena simile, con la cassiera zoppa che attraversa la scena lentamente; ma quando ho cominciato a girare, è stato così evidente il contrasto tra la figura umana così piccola e l’enorme spazio vuoto del cinema che ho sentito un’agitazione che mi impediva di distogliere lo sguardo. Lo avrei ripreso per dieci minuti. […] Lo spazio vuoto mi diceva di continuare. E allora ho lasciato che tutta la troupe trattenesse il fiato e che la pellicola continuasse a scorrere. In fase di montaggio tutti mi consigliavano di tagliare, ma non l’ho preso nemmeno in considerazione, secondo me c’è una grande gioia in quella scena, in quel vuoto, mi sento felice all’idea di avere in un film una scena del genere”.
Alla Conversazione con Tsai Ming-liang segue una corposa Filmografia critica in cui Corrado Neri passa in rassegna l’intera produzione del cineasta taiwanese, integrando le scarne schede tecniche, soprattutto quelle riguardanti i primi due film per la televisione (All the Corners of the Sea, 1989 e Boys, 1991), di scorrevoli e circostanziate analisi che costituiscono dei veri e propri saggi brevi, corredandole di stralci di articoli, studi e recensioni di varia natura e profondità. Un’osservazione peregrina (ma non più di tanto): poche volte mi è capitato di leggere trame tanto puntuali e centrate. Chiude il volume, incorniciato da una copertina di fantasmatica bellezza (si tratta di un fotogramma médusant del Fiume), una consistente Bibliografia (circa 20 pagine), prezioso strumento critico, come la monografia tutta, per studenti, studiosi e semplici appassionati. Un libro, come dire?, imprescindibile per qualsiasi amante del cinema lancinante e paradossale di Tsai Ming-liang.