TRAMA
16 novembre 1959: lo scrittore Truman Capote apre il New York Times e legge un piccolo articolo: Ucciso contadino e la sua famiglia (Halcomb, Kansas). Oggi un facoltoso coltivatore di grano, sua moglie e due dei loro figli sono stati trovati morti nella loro casa. Dopo essere stati legati e imbavagliati, i poveretti sono stati uccisi a colpi di carabina. E’ l’inizio di una delle avventure più eccitanti e dolorose della letteratura americana che, dopo anni, culminerà nella pubblicazione di IN COLD BLOOD.
RECENSIONI
La vita è solo il padre della saggezza, la morte è la madre.
da De Rebus Incognitis
Perry Smith
La famiglia sterminata a Halcomb. Capote legge l'articolo sull'omicidio. L'arrivo in città dello scrittore e Nell Harper Lee (che poco tempo dopo avrebbe vinto il Pulitzer per IIl buio oltre la siepe, stupefacente romanzo che condivide con certa opera capotiana luoghi e atmosfere). L'arresto di Smith e Hickock, gli assassini. Il rapporto dello scrittore con il primo, sorta di gemello sfortunato. L'ansia di Truman di fronte alla mancata fine del caso, i rinvii dell'esecuzione, il suo libro ancora senza un finale (TC: Scrivere il libro non è stato difficile quanto il viverci sempre assieme). A ben guardare Capote è l'esaustiva integrazione del romanzo A sangue freddo: lo sguardo 'oggettivo' (ma oggettivizzante sarebbe più proprio) dell'autore, il suo racconto scabro ma lirico, denso e vibrante del pluriomicidio di Halcomb, costituivano sì lo specchio fedele degli avvenimenti ma ne mantenevano un bel po' nell'ombra. Il film (e i capitoli della biografia di Clarke da cui la pellicola è tratta) allarga lo spettro e rivela quanto dello scrittore ci sia stato nel dopo-omicidio, quanto questi abbia influito sugli esiti della faccenda, come la sua docu-novel e il lavoro in essa profuso fossero diventati parte dei giochi in atto. Quello che mancava al libro (mancava si fa per dire, ovviamente, perché di un'interpretazione personale della materia si trattava; di un reportage, certo, ma anche di un romanzo che lavorava la sostanza reale con le tecniche proprie della fiction) è uno dei protagonisti principali dei fatti (Truman Capote): questo film lo aggiunge al quadro squarciando il velo sul decisivo ruolo che lo scrittore ebbe in un excursus processuale che avrebbe condotto, dopo anni, i due assassini alla forca.
Capote non è dunque un biopic, è un tentativo cinematografico di cambiare la prospettiva (cfr. Rosencrantz e Guildestern sono morti) di un romanzo (o - perché no? - del film che Brooks ne trasse nel 1967), virando l'attenzione sul punto di vista del narratore e del suo lavoro (non solo documentaristico). Ecco che Capote si rivela film di delicata pregnanza morale, che propone il nodo etico legato al farsi di un'opera straordinaria cui sono mancate per anni una quarantina di pagine decisive, quelle della conclusione: l'atteggiamento dello scrittore, che abbandona, in nome del suo lavoro (e del successo che, era sicuro, gli avrebbe arriso), i due killer al loro destino di morte. Risultato: un capolavoro letterario, due morti per impiccagione, uno scrittore all'apice del successo, umanamente e psicologicamente distrutto (poiché dilaniante era stato il suo oscillare tra l'affetto che nutriva per i due e la necessità oramai impellente di chiudere il libro; in una lettera a Cecil Beaton TC scrive: Perry e Dick hanno presentato ricorso alla Corte Federale per un nuovo processo: se l'ottengono avrò un crollo definitivo). Il film di Miller si concentra dunque sul rapporto che Capote aveva instaurato con gli assassini, con Perry in particolare (un grande Clifton Collins Jr.), figura affascinante la cui complessità la pellicola lascia solo intuire (Norman Mailer: Perry Smith è uno dei grandi personaggi della letteratura americana) cui lo legavano esperienze infantili similari, stessi traumi, stessi dolori: inevitabile il feeling e un reciproco, contrastato sentimento (ognuno vedeva nell'altro ciò che sarebbe potuto diventare). Il regista sceglie un approccio visivo secco e austero, elimina i rossi e i blu per illividire al massimo le immagini, adotta uno stile composto e stilizzato con improvvisi e pittorici campi lunghi ma non va al di là di questo, non riuscendo mai a uscire fuori dall'esigenza primaria (e comoda) di esporre veridicamente i fatti (poiché tutti veri sono gli accadimenti, compresa la sessione fotografica che Richard Avedon fece in prigione ai due assassini - cose che oggi suonerebbero impensabili -), di raccontare la storia e i suoi risvolti, di esporla con pedissequa e piatta prevedibilità.
Se è apprezzabile la scelta del regista di fare dello scrittore il centro del film, rimanendo l'omicidio un elemento tra gli altri nel rapporto complesso di Capote con l'opera che andava scrivendo e verso la quale avvertiva una sorta di responsabilità sacra, intuendone l'enorme potenziale innovativo, prendendo questa prospettiva come base primaria, d'altro canto tutto di superficie è il ritratto che ne risulta [informazioni varie strategicamente e forzatamente disseminate, patetiche citazioni - il veneziano Harry's Bar, di cui TC era habitué, in Kansas (!) -, sparsa aneddotica a condire (il rifiuto di Capote di usare il registratore nasceva dalla sua convinzione che l'apparecchio impedisse la franchezza dell'interlocutore oltre che dall'innata capacità dell'autore di memorizzare le conversazioni)]: se è vero, come si è detto che il film non è un biopic è vero d'altronde che ne presenta grosso modo tutti i difetti. Rimane la splendida performance di Philip Seymour Hoffman che è Capote: solo chi non ha mai visto un filmato dello scrittore o non ha avuto modo di ascoltare il film in originale (il doppiaggio suona inevitabilmente - mi verrebbe da scrivere incolpevolmente, se non fosse che questa pratica è colpevole a priori - fallimentare) potrebbe pensare che l'attore reciti sopra le righe (Capote era sopra le righe, e l'americano che negli anni 70 guardava in TV i talk show cui spesso TC partecipava, lo sa bene). E' prevista per la fine dell'anno l'uscita di un altro film sull'argomento, Infamous, con Toby Jones nel ruolo dello scrittore e Sandra Bullock in quello di Harper Lee.
(Hicock): Be', cosa c'è da dire sulla condanna a morte? Io non sono contrario. Si tratta solo di vendetta, ma che c'è di male nella vendetta? E' molto importante. Se io fossi parente dei Clutter (...) non potrei riposare tranquillo fino a quando il responsabile non avesse fatto quel famoso giretto sulla Grande Altalena. Quella gente che scrive lettere ai giornali (...). Dicevano insomma cos'è tutta questa farsa legale, perché quei figli di cane di Smith e Hickock non hanno avuto il fatto loro, come mai questi maledetti assassini stanno ancora mangiando il danaro dei contribuenti. Be', io capisco il loro punto di vista. Sono inviperiti perché non riescono ad avere quello che desiderano, la vendetta. E non l'avranno mai, se io posso evitarlo. Io credo nella forca. Purché non sia io ad essere impiccato.
da A Sangue Freddo
Speciale: The Tru(e)man Show
