TRAMA
Vinci, California. I destini e i tormenti dei true detectives Ray, Ani, e Paul si incrociano con quelli del malavitoso Frank. Sullo sfondo, l’efferato, misterioso omicidio di Ben Caspere, City Manager in affari con Frank.
RECENSIONI
Rust
Cohle: "I consider myself a realist, but in philosophical terms I'm a pessimist."
Hart: "What's that mean?"
Cohle: "It means I'm bad at parties."
Per l’ossessiva attenzione ai dettagli e alla riuscita del suo lavoro è soprannominato ironicamente The Taxman (L’Esattore). Fosse per Rust Cohle la morte, o meglio l’estinzione tutta, sarebbe il giusto augurio per il futuro dell’umanità, secondo una logica pessimistica che vede nella coscienza umana un clamoroso errore dell’evoluzione. Non aspettiamoci, quindi, conforto o comprensione verso l’altro dalle parole del detective texano, il cui unico obiettivo è di risolvere i casi e smascherarne i colpevoli. La sua vita è puro ascetismo misantropo, basti vedere l’appartamento dove vive, non così diverso da una cella monastica, con tanto di crocefisso appeso alla parete alle spalle del letto: da egli stesso rinnegato come attributo di Fede, ritenuto piuttosto uno strumento meditativo per essere consapevoli della croce dell’esistenza che ognuno di noi si porta sulle spalle. Rust è un predicatore della disillusione che rinuncia a ogni forma di attaccamento, al senso stesso della vita, reprimendo in modo maniacale le proprie emozioni, tra controllo del battito cardiaco e assunzione di barbiturici. E guai a intavolare un discorso con lui durante un tragitto in auto, chiedetelo a Marty…
Marty
Marty: "A Regular Type Dude With A Big-Ass Dick"
A Marty non manca niente: ha un lavoro pieno di soddisfazioni, una casa bellissima, una famiglia che lo ammira. Differentemente dal suo compagno, perè non è in grado di osservare se stesso e ciò che lo circonda, troppo assorbito in una routine che gli sta stretta e che rifugge nelle avventure extraconiugali. Se Rust nega ogni attaccamento, Marty non può farne a meno, seguendo un comportamento infantile e autoassolutorio che necessariamente porterà a far collassare le sue presunte sicurezze. Nell’episodio 4 (Who Goes There) lo vediamo entrare nel covo dei bikers come un adolescente in erba con tanto di cappellino e maglietta dei Pink Floyd, in un travestimento che maschera meno di quel che svela. Marty inizia la sua parabola da confuso aiutante del più perspicace e intuitivo Rust, mettendosi però lentamente in discussione e accettando come, in un mondo in cui sono il dolore e il caos a regnare, la normalità non può essere una semplice rivendicazione, ma piuttosto una conquista.
Lone Star
“Un esercito di lattine High Life vuote copriva il pavimento intorno alla poltrona; un esercito vero e proprio, dato che con un coltello avevo tagliato delle striscioline ai lati delle lattine di modo che si piegassero come delle braccia, e avevo tirato su i coperchi così che ricordassero delle teste!”
Galveston – Nic Pizzolatto (2010)
Louisiana
“A seconda dei luoghi in cui passavamo, la notte intorno a noi sfumava da nero inchiostro al rosso, al viola, al giallo slavato sospeso come una garza davanti al buio, come se potessi vedere il buio acquattato sotto la luce […]
[…] un lungo ponte sospeso su un’oscurità liquida. Mi fece pensare all’intrico denso della foresta e dei rampicanti di quand’ero bambino, a come quegli ammassi di verde e di foglie mi sembrassero così pieni di ombre e a come avessi la sensazione che ci fosse mezzo mondo nascosto in quelle ombre. Le torce delle raffinerie bruciavano nella notte […]”
Galveston – Nic Pizzolatto (2010)
Lo scenario di True Detective è senza dubbio un luogo dell’anima, una proiezione malata e tormentata dei suoi personaggi. Ad abitarlo sono dei residui umani corrosi dal dolore e incapaci di staccarsi dal proprio passato, che popolano una terra appesa quasi per miracolo a quel qualcosa che con fatica possiamo ancora chiamare vita. La Lousiana ci viene infatti presentata come una terra agonizzante e cadaverica, tra stagnanti acque post-uragano Andrew e cromature da (non) luogo dell’orrore, in un netto contrasto tra l’orizzontale desolazione del paesaggio e la verticalità degli scheletrici alberi e delle minacciose fabbriche. L’ambientazione quindi diventa parte integrante del racconto, per non dire predominante, un luogo apocalittico dove le fiamme di questo (nostro) inferno interiore sono più vive che mai, non solo per il fumo delle ciminiere ma soprattutto per l’atto originario del Re in Giallo che svela, ritualizzandola proprio con il fuoco, la malattia del mondo.
Time is...
In uno dei primi racconti di Pizzolatto (Beetween Here and The Yellow Sea, 2004), il protagonista riflette sulla memoria e su come questa possa essere interpretativa, poiché condividendo lo stesso spazio del desiderio e della volontà, ne fa da veicolo. Osservando con attenzione la struttura temporale della serie, ci renderemo conto di come questa idea sia una delle chiavi di lettura più convincenti. In principio c’é l’atto originario del Re in Giallo che sistema il corpo di Dora Lange e apre le porte alla rivelazione, iniziando simbolicamente lo svolgersi temporale degli eventi e dando forma reale al mito. Da quel momento la struttura di True Detective si articola su tre piani distinti ma in incessante dialogo tra di loro. Nel tempo presente, datato 2012, seguiamo le testimonianze di Rust e Marty che ripercorrono attraverso un gioco di flashback tutti gli eventi del 1995 fino alla cattura del killer Reggie Ledoux. Risolto il caso, l’interrogatorio si sposta sette anni più avanti, nel 2002, quando la collaborazione tra Cohle e Hart cessa improvvisamente e i vecchi spettri di Carcosa sembrano riemergere mostrando come il vero assassino sia ancora a piede libero. L’interruzione delle registrazioni da parte di Rust, prima, e Marty, poi, aprirà infine le porte al nuovo riavvicinamento tra i due e alla definitiva risoluzione dell’enigma. Appare chiaro fin da subito quanto le testimonianze dei due detective puntino a depistare i loro interlocutori, mettendo invece lo spettatore nella posizione privilegiata di poter godere della reale successione degli eventi e quindi di irridere il vicolo cieco nel quale Papania e Gilbough s’imbatteranno. Su questa strategia comunicativa c’é una soluzione di sguardo che cambia da subito il ruolo di subordinazione da cui Cohle sembra partire. Quando Rust chiede un break ed esige una confezione da sei lattine di Lone Star, la macchina da presa si sgancia letteralmente dal dispositivo di ripresa ed entra in pieno contatto con la sua performance, costruita intorno a digressioni, rimembranze su quanto accaduto e oculate omissioni di alcuni aspetti cardine. A ribaltarsi è proprio la posizione delle forze in campo, permettendo così alla vecchia volpe texana di scoprire le presunte indagini su di lui e di dileguarsi giusto in tempo. Allo stesso modo Marty ripercorrendo le tappe del 1995 mantiene un approccio di finta collaborazione, allontanandosi anch’egli nel momento stesso in cui gli viene chiesto di assecondare i sospetti verso l’ex collega. La cornice del 2012 fino al ricongiungimento dei due detective funge allora da autoriflessione, mediante un approccio che permette di rivedere in una luce nuova e più comprensiva la lezione del passato. E non è un caso che lo stesso Marty abbandoni progressivamente il suo fare scanzonato e impostato per meditare sul senso stesso di quanto vissuto, avvicinandosi incredibilmente a quella sensibilità che fino allora era prerogativa del solo Rust. Muovendosi su due piani che lentamente si avvicinano, preparandoli al nuovo e definitivo incontro, e grazie all’intervento di Maggie che chiude definitivamente ogni ulteriore passo della nuova indagine e nuovamente, come dieci anni prima, ogni forma di ipocrisia, Rust e Cohle completano la loro terapia. Ricollegandoci allora all’idea che l’autore ha della memoria, appare adesso chiaro come il longing and desire siano il cuore pulsante nella rielaborazione di quanto accaduto, la forza propulsiva che spingerà i due verso Carcosa e che dovrà essere liberata per tornare a vivere in quel presente fino a quel momento vittima di una circolarità ossessiva, ripetuta solo ed esclusivamente in se stessa.
5
Seeing things
“Ecco come bisognerebbe vedere, ecco come bisognerebbe vedere le cose
(Eppure vi erano delle riserve)”
Le porte della percezione – A. Huxley (1954)
Rust crede nella visione, lo strumento principale per carpire gli indizi che la realtà ci offre. Condizionato dai danni irreparabili al cervello causati dall’uso eccessivo di droghe durante la sua esperienza da infiltrato, può essere soggetto a stati improvvisi di allucinazione sinestetica che, se colti nella loro essenza, lo indirizzano verso nuovi livelli di comprensione fino a quel momento sconosciuti. A questa disfunzione Cohle affianca un’esasperata attitudine analitico-critica che punta a sviscerare tutto quanto possibile dalle prove accumulate, secondo ossessive combinazioni e nuove prospettive. Insomma, vedere è comprendere. Non possiamo certo dire la stessa cosa di Marty, decisamente poco intuitivo e piuttosto restio a seguire la dietrologia del compagno, da lui ritenuto paranoico nel piegare gli avvenimenti sotto la radicalità delle sue idee. E’ facile quindi pensare quale sarà l’attitudine dello spettatore, stimolato incessantemente da un gioco di rimandi, indizi, dettagli nascosti, rime interne che spingono la sua indagine personale al gioco della decodificazione. Allo stesso tempo però, l’atto della visione diventerà risolutivo solo ed esclusivamente quando Rust e Marty riusciranno a riavvicinarsi, in quella conquista che permetterà al passato di risanarsi dentro il presente. Se Rust non è più soggetto a deragliamenti psicotropi, Marty invece assimila la lezione del collega riuscendo con una semplice intuizione (guarda caso sempre tra passato e presente) a smascherare la fantasmatica identità del spaghetti monster con le orecchie verdi. Si rifugge dalla realtà ma alla realtà si ritorna sempre se si vuole risolvere i propri conti in sospeso, perché ogni forma di deragliamento, pur permettendo stati nuovi di comprensione, non può che tornare da essa. Appurato questo nuovo contatto con il mondo, allora si è pronti ad attraversare il “sentiero della sposa” (the bridal path) e toglierci, definitivamente, la nostra maschera.
Falling
Verso Carcosa
Come ogni buona detective story non possono non mancare le strizzatine d’occhio allo spettatore, in un gioco di indizi e rimandi simbolici che ne sollecitano la volontà di afferrare la linea interpretativa più accattivante. E non c’é niente di meglio di un killer la cui serialità sposa le suggestioni dell’occulto e il suo profondo legame con il potere, quell’unione perfetta per ogni immaginario di complotto che si voglia rispettare. Non stupisce quindi quanto il simbolismo proliferi smisuratamente, a volte con modalità esplicite, altre volte con strategie subliminali che solo una visione più attenta può scorgere. E dietro questa atmosfera che deraglia nelle sensazioni tipiche del fantastico, riecheggia la presenza della misteriosa Carcosa, il motore simbolico di tutta la serie, una leggendaria città perduta, per la prima volta citata nel racconto An Inhabitant of Carcosa di Ambrose Bierce del 1891, ove un viandante, desideroso di raggiungerne le rovine, incontrava durante il suo cammino una sorta di guardiano della soglia che lo apriva a una visione rivelatoria e terrificante al tempo stesso. La città diventa un mito maledetto nell’opera di Chambers in The King in Yellow and other stories (1895), le cui visioni erano la diretta conseguenza della lettura di un libro che narrava proprio le vicende di Carcosa e del misterioso Re in Giallo, portando gli sfortunati protagonisti in stati febbricitanti e di mortale follia. Pizzolatto in True Detective riprende le notevoli suggestioni di questa invenzione narrativa per costruirne fisicamente un luogo di culto dove vengono praticate forme di magia sessuale in una mescolanza di tradizioni che spaziano dal Celtismo (le corna/corona del Dio Cernunnos), alla Santeria, alla Kabbalah, alle forme di neo-paganesimo e a un presunto Satanismo (che poi oggettivamente di Satanismo non si tratta). Tutti orpelli per quella che sarà la visione definitiva, gli stessi orpelli che Rust irride rivolgendosi alla comunità evangelista di Padre Theriot. Quello che ci interessa di Carcosa è senza dubbio la sua natura di luogo mentale e spazio interiore, piuttosto che la sua valenza di sacro tempio che permette(rebbe) di uscire dalla condanna del divenire. Ed è chiaramente questo stato profondo di paura la chiave simbolica della grande prova, quella di togliere il proprio travestimento e confrontarsi dentro il proprio spazio che rispecchia la più antica delle storie, ovvero il conflitto tra la Luce e le Tenebre. Rust vi entra senza rendersene conto, ne è un chiaro riflesso, quell’ombra, corrosiva come l’acido, che terrorizza la piccola Fontenot; come lo stesso Marty che gradualmente diventa artefice della stessa natura umana che fino a quel momento giudicava con facile conformismo. L’universo rappresentato si ripete nell’analogia di simboli e azioni richiamando la circolarità invocata da Ledoux prima di essere giustiziato. I rimandi sono molti e continui, e sebbene traccino un sistema di conoscenza affascinante, non ha senso analizzarli nel dettaglio, quanto piuttosto intenderli come attributi di un percorso di consapevolezza che necessariamente deve oltrepassarli per definirsi tale.
Dreaming
And like a lot of dreams, there's a monster at the end of it.
Do you know yourself?
Woe! woe to you who are crowned with the crown of the King in Yellow!
(The Repairer of Reputation da The King in Yellow and other stories – R.W. Chambers)
Non è un caso che l’apparizione del Re in Giallo avvenga proprio il giorno dell’anniversario della morte di Sofia, la figlia di Rust, una mancanza che va ben oltre la persona cara, perché è proprio la saggezza, nel suo profondo significato d’innocente conoscenza, ad essere andata perduta. La caduta dell’umanità si simbolizza fin da subito nella crudeltà verso i suoi simili e soprattutto nei confronti del mondo infantile, specialmente quello femminile, la vera vittima del sistema deviato e della sua ritualità sessuale. Tocca a Rust allora farsi carico di questo oblio da/di stessi, portando la propria croce dalla sua dimensione privata (l’incapacità di rielaborare un lutto) a una più universale, secondo un’iconografia ben studiata che lo vede, nel 2012, consumato dalle proprie ossessioni di comprensione, assumere specifici connotati cristologici. Il suo percorso di liberazione, e di noi tutti, porta Cohle a ribaltare clamorosamente il senso stesso della sua ricerca, non più ancorata dentro le sue sovrastrutture critiche e di rifiuto del mondo, ma procedendo gradualmente in un cammino iniziatico il cui punto di arrivo è il conoscere se stessi e di conseguenza accettarsi per quel che siamo. _Perché in un tempo circolare in cui tutto sembra dover ripercorre il proprio sentiero all’infinito, la vera ascensione non avviene abbracciando la morte, annullando con chissà quale illusione il proprio tormento, ma accettando l’esistenza stessa e togliendosi quella maschera che, in fin dei conti, è l’unico e solo elemento di separazione da quel Ghost of Love che un vecchio regista di Missoula aveva racchiuso in tutta la sua filmografia. Dall’impero della mente di Carcosa, riecheggia la voce interiore di Errol che intima a Rust di andare a morire con lui, di togliersi la maschera, le proprie vestigia da piccolo prete, voltandosi alla sua destra (quella del Padre) per ascendere insieme (dopo l’accoltellamento, il corpo del detective è simbolicamente sollevato verso l’altro). E, così, un pedofilo viscido e schizofrenico diventa il Maestro che permette al nostro protagonista di risanare definitivamente il proprio conflitto interiore, incarna quella soglia della paura, quel mostro alla fine del sogno che è la proiezione ultima da affrontare prima di liberarsi. Il tutto ponendo l’accento nuovamente su come la (nostra) resurrezione si compia solo ed esclusivamente nella vita stessa, con quell’ultimo meraviglioso atto di compassione di Marty che, da vero radicato alla realtà, riporta Rust in mezzo a noi. Da uno sguardo che demoliva con la logica l’umanità e i suoi limiti, al singhiozzante pianto di un padre che finalmente accetta quella Perdita (si, con la lettera maiuscola), rendendo chiaro ancora una volta quanto l’amore sia l’unica religione e tutto il resto sia solo spazzatura. I cinici delusi dal finale possono quindi mettersi l’anima in pace.
E così è finita la seconda stagione di True Detective. Leggendo in giro, l’opinione più diffusa, almeno inizialmente, era che la prima stagione fosse molto bella, la seconda molto brutta. Poi, si sa, nell’Internet, nel mondo dei social, bisogna sempre fare a gara a chi è più smaliziato, a chi ha l’arguzia più lunga, e allora viene fuori che, no, TD2 non è così brutto come credono i sempliciotti. Anzi. Per certi versi, sentite un po’ cosa vi dico(no), è addirittura più bello, perchè più intransigente e ambizioso. Insomma, al solito, tutto e il contrario di tutto, comeè normale/giusto che sia.
Scritta questa intro- un po’ paracula, ci buttiamo nell’agone e diciamo la nostra. True Detective 1 era un’ottima serie. Con diversi limiti. Quelli piùevidenti risiedono nel suo essere troppo evidentemente scritta. E’ chiaro fin da subito che il personaggio di Rust sia il punto di forza della serie, quello che ne certifica l’alterità rispetto al resto: i suoi filosofeggiamenti neonichilisti, da novello Bazarov, sono effettivamente uno spasso. Solo che Pizzolatto ci insiste un po’ troppo e ben presto rompe l’incanto, svelando il trucco, rischiando di stroppiare e di ripetersi (forse i riferimenti a The Conspiracy against the Human Race di Ligotti erano finiti? Apriamo e chiudiamo qui la parentesi sulle accuse di plagio, non del tutto campate in aria). Fortuna vuole che la serie non sia solo Rust e la spalla finto-redneck Marty ma anche una classica trama Thriller che si tinge progressivamente di Noir per poi sfociare nell’Horror anni 70 alla Texas Chainsaw Massacre o The Hills Have Eyes, con finale scaltro capace di accontentare sia i tele-spettatori classici, propensi all’happy ending, che i più scafati che non mancheranno di bearsi del fatto che, sì, Marty e Rust sono vivi, hanno ucciso il Cattivo che cercavano ma si arrendono, la loro indagine finisce là; anche se sono molti altri i “mostri” là fuori, perché; non è quel tipo di mondo. La serie ha ritmo, è ben costruita sull’andirivieni temporale di un’indagine a ritroso, ha belle derive propriamente Gialle e una regia (tutta di Fukunaga) molto solida che si concede pure qualche lusso, come l’arcinoto piano sequenza posto in chiusura del quarto episodio che fa la sua porca figura. Dopo il botto di TD1, insomma, è arrivato questo atteso TD2. Che fin da subito appare più ambizioso. Tanto per cominciare, i detectives sono raddoppiati: tre true più un malavitoso, Frank, che però interagisce con Ray e finirà per indagare lui stesso. Ma la presentazione del caso, l’omicidio di Caspere, pur mostrando delle analogie con quello della prima stagione (una certa, enigmatica efferatezza) appare subito fumosa, decentrata, non amalgamata con le vicende personali dei quattro. Pizzolatto, insomma, sembra chiarire che stavolta non solo ha intenzione di affrontare la questione noir/hard-boiled di petto, da Chandler a Ellroy, cifre e codici compresi (tra i quali vi è la non-completa-comprensibilità dell’intreccio, cfr. Il Grande Sonno), ma che sono proprio i personaggi, le loro storie, i loro tormenti a interessarlo maggiormente, a fare la Stagione. Questi, almeno, sembrano gli intenti. A voler essere, diciamo, gentili, a voler vedere cioè; una progettualità estetica precisa e consapevole. Perché; quello che si dipana episodio dopo episodio parla di indecisioni, incertezze, scivoloni, falle e noia. Tanta tanta noia. Mi rendo conto che la Noia non è una categoria critica accettabile, ma quando il recensore/analista, nonostante tutta la buona volontà e una naturale inclinazione a non abbioccarsi MAI di fronte a un audiovisivo, quando questo recensore, insomma, arriva a registrare almeno una caduta di capo (con annesso rewind) a episodio, ecco, in qualche modo l’onestà intellettuale impone di palesare la cosa e renderne partecipe il lettore. A grandi(ssime) linee, la Stagione Due di True Detective procede così: i quattro protagonisti tormentati tergiversano, bofonchiando mezze verità su di loro e sul loro passato, passato che racchiude le cause dei tormenti di cui sopra; mezze perché è evidente che dev’essere un disvelamento progressivo dei loro caratteri che raggiungerà lo zenit negli ultimi due massimo tre episodi. Un po’ come quando, in Lost, i personaggi non si fanno le domande giuste e/o non si rispondono perché ancora neanche gli sceneggiatori le sanno, le risposte, e si procede di reticenza in reticenza. Nel frattempo, avulsa, procede l’indagine sull’omicidio Caspere, frammentaria, singhiozzante, incapace di suscitare vero interesse e martoriata da un’eccessiva ramificazione che non si ha né il modo né soprattutto la voglia di seguire. Con qualche sussulto un po’ banale, buttato là; come esca narrativa di bassa lega per l’episodio successivo. Abbiamo, ad esempio, la (ovviamente) falsa morte di Ray alla fine del secondo episodio che proietta di slancio nel terzo, aperto, tra l’altro, da un momento talmente lynchiano da rasentare la parodia (forse per evidenziare la volontà di giocare oniricamente sugli archetipi noir, alla Lost Highway?). E improvvise esplosioni, prive di una vera giustificazione narrativa, come la mega sparatoria alla fine del quarto episodio, probabile (neanche-tanto-)cripto-rimando concettuale al finale del quarto episodio della prima stagione. Segue, nell’episodio cinque, un’ellissi di un paio di mesi che però, visto l’andamento/ritmo della serie, avrebbero potuti essere anche due giorni. Tutto è infatti gestito in maniera quantomeno opinabile, con decine di minuti di Nulla e inopinate accelerazioni emotivo/informative che: 1) rendono ancora più esose le inconcludenti chiacchiere a denti stretti che tocca sorbirsi e 2) vanificano la solidità di un impianto che, forse, voleva edificarsi su un tappeto diegetico volutamente paludoso, poco chiaro, poco importante, rectius: importante nel suo non essere importante. Ma allora che ci fanno quegli improvvisi squarci di chiarezza? Perché quelle subitanee epifanie alla Tenente Colombo? Magari Pizzolatto aveva le idee chiare e sapeva bene dove andare a parare ma è innegabile che qualcosa sia andato storto. L’impressione, cioè, è che, stabilite le mete (narrative, emotive, formali) della serie, ci si sia occupati solo di quelle, senza curare troppo il tragitto e, più nello specifico, la coerenza e la solidità del tragitto (tra parentesi: la mano di sei registi diversi certo non aiuta). E non parliamo solo del già citato squilibrio ritmico generale, ma anche di semplici dettagli, di momenti drammat(urg)ici che, semplicemente, non stanno in piedi. Tipo: a un certo punto, il personaggio di Woodrugh deve morire. Vogliamo una morte epica, che gli dia dignità, ma improvvisa, che lasci l’amaro in bocca a fine episodio, quel retrogusto che fa tanto “wow, che bella serie questo True Detective”. Lo si spedisce allora sottoterra, in un immenso e inestricabile dedalo di cunicoli che si dipana “per tutta la città” (sic), lo si fa braccare, gli si fa fare una strage, da vero guerriero, e fin qui ok, ma poi? Il Nostro esce da una a caso delle, decine? dozzine? centinaia? vie di fuga dove, guarda caso, lo aspettava il suo carnefice con la pistola spianata che lo giustizia alle spalle. Ripetiamo: può sembrare un appunto da forum di appassionati che si accapigliano, e forse un pochino lo è, ma è significativo. Sintomatico di una scrittura che sacrifica tutto sull’altare di un progetto rispetto al quale è; perfino disposta a diventare imprecisa, poco attenta, sciatta. L’ottavo e ultimo, ipertrofico (un’ottantina di minuti contro i canonici sessanta) episodio è davvero emblematico, una specie di summa di tutta la stagione. Si tratta di un remake raddoppiato di Carlito’s Way, in cui due Carlito Brigante (Frank e Ray) dicono alle rispettive compagne che le raggiungeranno, al sicuro, in un posto migliore ma sappiamo già come andrà a finire. I nodi, comunque, devono venire il pettine, i cerchi vanno chiusi, il Fato non può non dimostrare la sua proverbiale Ineluttabilità. E Pizzolatto si perde un po’. Frank ha un dialogo con Jordan nel quale passa, in una manciata di secondi, da novello Rick Blaine che fa il duro per il bene della sua donna, a gattone arruffato tutto tenerezza e romanticherie, esemplificazione della malagestione che la serie riserva al percorso formativo dei personaggi. Nel prosieguo della puntata, Frank, invero poco accorto nel pianificare la fuga (se ne va tranquillo sul suo solito megasuv nero), viene catturato dai messicani e portato nel deserto. Qui c’é un altro esempio di scrittura trasandata: il nostro è circondato e disarmato, con la fossa già pronta che scavata, e riesce a contrattare dicendo ai suoi carnefici che possono tenersi i soldi nella borsa che hanno già? La proposta (assurda) insieme a un’offerta di collaborazione gli salverebbe comunque la vita, se non fosse che la richiesta di togliersi il vestito (con conseguente perdita dei diamanti che teneva nella tasca) lo spinge a un gesto suicida. Difficile stabilire in che misura sia un impeto di orgoglio, un estremo tentativo di garantirsi un futuro (economicamente) roseo o un semplice tributo da pagare alla sceneggiatura. Quel che è certo è che la sequenza si conclude rasentando il ridicolo involontario. Se il barcollare di Frank verso il nulla desertico ha una sua forza, l’improvvisa comparsa degli avvoltoi, il padre che lo maltratta, Jordan di bianco vestita, sono didascalie che chiudono il capitolo Frank in maniera prossima all’imbarazzante ma, di nuovo, coerente col mood altalenante della serie. Sorte simile, forse addirittura peggiore, tocca a Ray. Il quale giunge all’epilogo dopo un altro paio di sequenze un po’ così. La prima è uno dei momenti Tenente Colombo / Signora Fletcher dei quali si è già accennato, ossia la folgorazione riguardante il fratello di Laura, Leonard, tappa decisiva dell’indagine cotta e mangiata in una decina di secondi a fine stagione. L’altra, conseguente, è quella in cui Ray doveva salvarsi il culo ma che invece lo condanna definitivamente: l’incontro col poliziotto, al quale si doveva presentare in incognito e infatti si traveste da John Wayne, con Leonard che perde le staffe una volta saputa la paternità della sorella e manda tutto in vacca a un passo dal successo. Ma diciamo che ci sta. Ci sta un po’ meno la fuga vera e propria. Diamo, di nuovo, per buona la visita al figlio (catatonico), il distintivo Velcoro sul tavolo e il saluto militare. Ma è quello che succede dopo che è difficile da digerire. Ray si accorge del transponder o quello che è attaccato sotto la sua auto perché lo vede riflesso in una misteriosa pozza di liquido (acqua?), l’unica in una strada altrimenti asciutta. Cerca di staccarlo e non solo demorde dopo un unico tentativo poco convinto ma si va subito a infilare in un cul de sac boschivo. In realtà la sensazione è che potrebbe comunque farcela ma, proprio quando ha ucciso quasi tutti i suoi inseguitori, si getta in pasto alle pallottole un po’ alla Tony Montana. E abbiamo taciuto la parte forse più trash, che risiede nel messaggio vocale destinato al figlio (dal contenuto un po’ criptico) che Ray non riesce a inviare per assenza di campo, con disperata ricerca di tacche coestensiva all’inseguimento/sparatoria. Di nuovo: i personaggi dovevano morire ma sul come muoiono la sceneggiatura si mostra goffa, lacunosa, incapace di dare vera solidità, diremmo anche vera dignità alla Tragedia Noir che ha cercato di costruire nell’arco degli otto episodi. Chiudiamo con Antigone, detta Ani, che contrariamente alla sua omonima sofoclea alla fine non muore ma è anzi l’unica true detective a salvarsi (forse è la sola a meritarselo, essendo la più integerrima nonché vittima priva di colpe, benché la cosa possa mostrare il fianco a ipotetiche accuse di moralismo). Nell’ottavo episodio, finalmente, ci dice tutto sul suo passato e sulla violenza subita da ragazzina. Il suo personaggio rimane, fino all’ultimo, il più indecifrabile e forse meno incisivo. Indecifrabile perché è quella che tira più per le lunghe il proprio mistero e dunque il suo tormento ci rimane poco intelligibile, meno incisivo perché quello che sappiamo ci sembra quasi troppo banale per essere vero: figlia di una macchietta hippy new age imparruccata, per contrasto decide di fare la detective. Mah. Ri-chiudo, stavolta davvero, con la consapevolezza che no, alla fine la seconda stagione di True Detective non mi è piaciuta. C’è del buono ma non è decisamente abbastanza. Finalmente l’ho capito, scrivendone, perché scrivere è, come sempre, l’unico modo per schiarirsi le idee.