
Se non dico di Jeanette di Bruno Dumont (alla Quinzaine), di gran lunga il film più importante della kermesse cannense, l’unico capolavoro visto in Croisette, è perché ne è stata confermata la distribuzione italiana. Il regista belga torna al suo cinema più radicale e meno concessivo: gli esodi dalla sala dopo la prima mezz’ora lo stanno a confermare. Chi resta sa godere.Due colpi di coda in competizione.
Adorabile (e mi pare sottovalutatissimo), Hikari (Radiance) di Naomi Kawase contiene, all’interno di un film imperfetto, una riflessione teorica di grande sottigliezza. Nell’audiodescrizione (quella che la protagonista fa dei film, a vantaggio dei ciechi) si stratificano i tentativi di rendere e comprendere l’immaginazione del regista, ma anche l’espressione della sensibilità personale di chi quelle immagini le sta descrivendo: così la visione dell’autore si pone a confronto con la percezione dello spettatore, quello che c’è sullo schermo con ciò che vi vediamo, l’oggettivo con il soggettivo. Un film che traduce con suprema intelligenza questo gioco di specchi e che si fa perdonare gli sdilinquimenti lirici e le velleitarie trame parallele.
Non escludo premi: al presidente Almodovar la lucidità del costrutto potrebbe piacere molto.The Day After è il consueto, delicatissimo esercizio minimalista del regista coreano Hong Sang-soo: storia di un triangolo che si estende erroneamente a un quarto soggetto e in cui la patina dell’austera commedia viene lacerata da lampi di furia melodrammatica. La sua apparente semplicità (bianco e nero, dialoghi che prevalgono sull’azione, pletora di piani fissi, movimenti di macchina centellinati – con zoom sull’interlocutore al posto del campo/ controcampo -) traveste la descrizione puntuale e profonda di un cambiamento, le riflessioni esistenziali sul mutare delle cose, il passare del tempo, la memoria che tradisce la realtà delle cose.