TRAMA
I Transfomers, robot alieni dal pianeta Cybertron, vivono tra noi ormai da anni, ma si nascondono dalle forze speciali del governo Usa. Quando un gruppo di ragazzini entra nell’area proibita di Chicago, dove ci fu una grande battaglia nel terzo capitolo della serie, Cade Yaeger interviene a salvarli e riceve da un Transformer vecchissimo e moribondo un antico talismano, che gli si attacca addosso. Yaeger e la giovanissima Izabella sfuggono all’arresto e si rifugiano in una grande discarica di automobili, dove vivono diversi Autobot…
RECENSIONI
"Non mi chiederete di raccontarvi la trama, vero? [...] Devo ammettere che non ci ho capito molto'. - Anthony Hopkins, a pochi giorni dall'uscita in sala del film.
Che una dichiarazione di questo tipo venisse accolta con pernacchie e facile ironia nei confronti del vecchietto Hopkins e del sempre bistrattato Bay era ampiamente prevedibile. C'è però il rischio che l'accodarsi divertiti a tale gioco al massacro faccia perdere un'occasione piuttosto stimolante per riflettere non solo sul cinema di Michael Bay (che è ben più interessante di quanto sostengano i detrattori) e sullo stato delle cose del blockbuster contemporaneo, ma anche e soprattutto sul suo pubblico; sulle sue abitudini, sulla capacità di leggere il (e godere del) prettamente visivo, su ciò che tendenzialmente (si) considera rilevante nella valutazione di un film. Sul banco degli imputati, ovviamente, la trama, intesa come meccanismo narrativo più o meno chiuso, autosufficiente e coerente (termine sempre ambiguo e scivolosissimo quando si parla di comportamenti e psicologie, benché in forma di rappresentazione artistica). Certo ne è passato di tempo da quando Scott Bukatman ha paragonato il blockbuster ad una corsa spettacolare e sempre meno narrativa,[1] e si tratta solamente di una delle tante teorie (anche se tra le più fortunate e prolifiche) che del cinema mainstream hollywoodiano del ventennio Ottanta-Novanta lamentano o perlomeno individuano l'indebolimento della narrazione a favore di uno spettacolo sempre più totale e sensoriale. Riassume bene Bocchi: «Hollywood, insomma, come show in cui poter vedere e provare ogni cosa, a discapito della narrazione e della definizione del personaggio» [2]. Ne è passato di tempo si diceva, ma è facile intuire come tali tendenze siano in gran parte valide ancora oggi per tutte le grandi produzioni hollywoodiane. Quella della narrazione resta però una questione spinosa: l'impressione è che in un'epoca come quella contemporanea, dove si è già visto tutto, dove si può vedere tutto e dove la sacralità della sala è stata in gran parte rimpiazzata da schermi sempre più piccoli, sia diventato piuttosto difficile instillare nello spettatore quel sense of wonder che è da sempre parte integrante della visione cinematografica. Assuefatto alla meraviglia, il pubblico sembra essere sempre meno disposto ad accontentarsi di un'esperienza sensoriale e sempre più desideroso di storie, attento prima di tutto alla coerenza narrativa del racconto (è pur sempre l'epoca del trionfo della serialità, dei grandi universi narrativi, delle sperimentazioni nello storytelling transmediale). Proprio per questo, nel blockbuster di oggi, andare contro la narrazione è ancora un gesto rivoluzionario. Sgretolarla e trascurarla, sputarci sopra in favore di uno sconsiderato arrembaggio visivo è una profonda ed energica dichiarazione d'amore. L'ha capito (già da anni, a dire il vero) uno come Zack Snyder, il cui sottovalutato Batman V Superman: Dawn of Justice (guarda caso criticato e deriso da molti per le sue debolezze narrative e di scrittura) è in questo senso uno dei punti d'arrivo più magniloquenti di tale coraggiosa volontà di andare oltre, di assaltare prepotentemente i sensi dello spettatore per risvegliarlo dal torpore, di procedere senza ritegno per accumulo di elementi e situazioni fino ad un punto di non ritorno (e per giunta in un cinecomic di un universo narrativo in espansione). Ma tutto questo, ovviamente, l'ha capito anche Michael Bay, che nella saga dei Transformers (arrivata ormai al suo quinto capitolo in dieci anni) ha trovato da sempre un ottimo terreno su cui sperimentare interessanti soluzioni visive e maturare registicamente. Nel lavorare costantemente oltre la soglia dell'eccesso (anche, banalmente, di durata: si va dai 142 minuti del primo capitolo ai 165 del quarto), Bay è riuscito negli anni a costruire un'iconografia propria, che non si è mai davvero tramutata in mitologia proprio a causa della sua arrogante preponderanza visiva sul racconto. Piaccia o meno, c'è del romantico in tale caparbietà.
Cosa c’è che non va dunque in questo Transformers - L’ultimo cavaliere? I problemi sono tanti, sono quasi gli stessi del quarto capitolo della saga e sono tutti imputabili alla dimensione narrativa. Ma, appunto, non tanto per incoerenza o presunte falle nel meccanismo del racconto, quanto piuttosto per un rapporto tra narrazione e spinta verso il tour de force sensoriale che pare ormai sempre più vicino al compromesso. Michael Bay è un eterno bambino che ha bisogno di giocare con i suoi giocattoli: si diverte (e ci diverte) solo quando li fa scontrare, quando li distrugge e quando demolisce il paesaggio circostante. In questo, va detto, non è secondo quasi a nessuno. E il fatto che di tutto il resto gliene importi ben poco non è mai stato così evidente come in questo quinto capitolo (il secondo con Mark Wahlberg nei panni di Cade Yeager), dove si ritorna svogliatamente alle origini della dinastia Witwicky, si cerca invano di costruire una qualsivoglia alchimia tra Yeager e Izabella (Isabela Moner, in un ruolo che non può non ricordare la Laura Kinney di Logan, giovane e guerriera, seppur meno violenta) e tra Yeager e Viviane Wembly (Laura Haddock), ci si confronta con robottoni che sono sempre più vicini a degli involucri vuoti, completamente privati dell’anima che avevano nella trilogia iniziale. Il tutto inserito in un racconto ben poco esaltante. Il guaio però è che alla fin fine una componente narrativa così fiacca finisce per rubare tempo prezioso a quella che è invece la dimensione energica, visiva e fracassona, di gran lunga più interessante e stimolante (anche se neppure qui si riesce ad alzare l’asticella del terzo, ottimo, capitolo). Per Bay insomma, la narrazione sembra essere diventata poco più di un fastidioso orpello, buono e necessario solo per accontentare i fan della serie. Ne è una prova l’esasperazione con cui in Transformers - L’ultimo cavaliere si spinge costantemente verso la decostruzione e lo svelamento ironico delle regole seriali che accompagnano la saga (il simpatico siparietto sulla musica di accompagnamento, le battute finali di Optimus Prime); in alcuni casi divertenti, in altri meno, ma tutti sintomo di quanto poco ormai Bay creda nel racconto e nelle grandi storie. Il tentativo (comunque fallito) di bilanciare narrazione e bombardamento visivo fa del male ad entrambe le parti: da un lato perché il rumore delle esplosioni soffoca l’approfondimento psicologico dei personaggi e il concatenarsi delle situazioni, dall’altro perché il costante bisogno di portare avanti una storia sembra tarpare continuamente le ali ad un regista che ha bisogno di lavorare solamente su immagini per esprimere il meglio di sé. Insomma, nel caricare le sue immagini di informazioni fino a farle scoppiare, nel riempirle a tal punto da spogliarle di qualsiasi significato, nel suo inossidabile horror vacui, Bay ha una costanza e una coerenza quasi teorica, ed è davvero difficile pensare ad un materiale di partenza più adatto dei Transformers per lavorare in questa direzione. A queste condizioni allora, ben venga la videoarte. Ben venga il giorno in cui Michael Bay deciderà di abbandonare una volta per tutte il racconto e di lasciarsi andare ad un assalto visivo e sensoriale senza precedenti. Ben venga il momento in cui la narrazione sarà talmente rarefatta da svuotare davvero l’immagine di ogni significato. Ben venga l’astrazione. Si ripartirà finalmente da zero.
E torneremo ad innamorarci, non di storie ma di immagini.