TRAMA
Dopo i fatti di Chicago (cfr. I fatti di New York, The Avengers), sulla terra è caccia aperta a tutti i Transformers. Intanto tale Cade Yeager, una via di mezzo tra un meccanico, un inventore e uno scienziato (anabolizzato) trova Optimus Prime in un vecchio cinema abbandonato. Nel frattempo, altri scienziati veri e normolinei hanno scoperto il Transformio, sostanza di cui sono fatti i Transformers, e resuscitano Megatron, anche se lo chiamano Galvatron. Tutto questo mentre una specie di cacciatore di taglie intergalattico, Lockdown, cerca Optimus Prime per riconsegnarlo ai Creatori, che a suo tempo causarono l’estinzione dei dinosauri. Buffo come certe trame rivelino tutta la loro stupidità solo quando le metti nero su bianco.
RECENSIONI
Molto entropico, molto poco antropico. Il cinema di Bay, cioè, tende inesorabilmente al disordine, alla confusione e non sembra tenere granché al fattore umano della faccenda. E, si sa, l'entropia di un film isolato aumenta sempre ma, quando si uniscono insieme due film, l'entropia del sistema combinato è maggiore della somma delle entropie dei singoli film. Se poi i film diventano quattro, si capisce che il passo verso la caciara senza capo né coda diventa brevissimo. Non si può dire, però, che Michael Bay sia un regista del tutto privo di idee o che il suo sia un cinema affatto vuoto. Specie ora che si avvia verso la cinquantina, sembra anzi un po' stanco della gabbia fracassona in cui si è rinchiuso e si vede lontano un miglio che smania per mostrare al mondo che qualcosa da dire, lui, ce l'ha. E' proprio la termodinamica, poverino, che lo frega. Ma andiamo con ordine.
Pain & Gain è stato un film importante, da questo punto di vista. L’intento, evidente, era quello di marcare una rottura nella sua filmografia e insieme di azzardare un’autoanalisi critica. Budget limitato (22 milioni di dollari), “storia vera”, satira anti-americana, presa per i fondelli del machismo ipermuscolato. Un Bay anti-Bay? Inizialmente. Apparentemente. Perché non ci sono correzioni di rotta stilistiche (ralenties, montaggio frenetico, cambi/correzioni di inquadratura ridondanti) e il tutto, col passare dei (troppi) minuti, diventa confuso e un po’ stanco: gli stessi concetti ribaditi e sottolineati alla nausea e la parodia che si circoscrive ai tre protagonisti, emblemi solo di se stessi e della propria personale idiozia. Un tentativo riuscito in minima parte, insomma, di sporcarsi le mani, di trovare un equilibrio tra il mainstream e una sua rilettura deformante e obliqua. Una cosa alla Domino, per capirsi. Anche se Domino e Tony Scott sono tutta un’altra cosa. Con Transformers 4 si torna ai santi vecchi di un brand affermato e megaprodotto (210 milioni di dollari). Con un paio di ma. Intanto c'è l'azzeramento del consueto cast, si respira aria di reboot (ma solo l'aria, trattandosi di un sequel a tutti gli effetti). Poi, Michael Bay sembra azzardare qualche tratto autoriale, come se quello di Pain & Gain fosse un vero discorso autoanalitico, destinato a essere portato avanti, fino a contaminare anche la produzione più standardizzata. Optimus Prime, così, viene ritrovato in un vecchio cinema abbandonato, il cui gestore rimpiange i bei tempi di Howard Hawks e disprezza il cinema di oggi, tutto fatto di remake (è appena il caso di ricordare che Bay ha prodotto, tra gli altri, i remake di Non aprite quella porta, Amityville Horror, The Hitcher, Venerdì 13 e Nightmare). E ancora, altri elementi autoreferenziali si possono riconoscere nel nuovo 'transformismo' brevettato in questo quarto episodio, che ricorda molto la scomposizione e ricomposizione in pixel, ossia la reale genesi dei Transformers cinematografici. Per arrivare anche agli aspetti squisitamente produttivi: il nuovo Transformers è girato anche con soldi cinesi e i nuovi Transofrmers nel nuovo Transformers sono assemblati anche con soldi cinesi (con tanto di attori cinesi, location cinesi, cripto-spot cino/hongkonghesi).
Michael Bay, insomma, si dà alla teoria e gira qualcosa di più consapevole – dunque – raffinato? Non proprio. Il suo è un cinema troppo suo per diventare qualcosa di realmente altro. Le meta-divagazioni elencate sopra rimangono, appunto, in parte divagazioni (banali quanto innocue), in parte sovrainterpretazioni che non intaccano la sostanza della fruizione. Sostanza che rimane la stessa di sempre, volendo, elevata a una potenza piuttosto alta. Se è vero che, forse, non si raggiunge la magniloquenza distruttiva del finale di Transformers 3, è altrettanto vero che a cominciare dal minutaggio (centosessantacinque minuti) passando per le ipotesi allostoriche (i Transformers, dopo aver “coinvolto” Armstrong e Aldrin ed essersi intrufolati nel disastro di Chernobyl, qui diventano responsabili dell’estinzione dei dinosauri…), in Transformers 4 tutto è accumulo, ipertrofia, dismisura. Senza che vi sia niente (altro) di realmente centrato, a fuoco. Qualunque buon spunto – visivo o narrativo - viene disinnescato dalla coazione a ripetere e da un sovraccarico che porta alla confusione, al disordine. All’entropia.
La vicenda umana, pedissequa riproposizione del già stantio topos di Armageddon (il triangolo padre geloso / figlia figa / fidanzato), diventa ben presto un fastidioso rumore di fondo, specie dopo la decima volta che Mark Wahlberg dice che deve proteggere la sua bambina e che chiama il (recitativamente) ingiudicabile Jack Reynor trifoglietto. Il “comparto drammaturgico Stanley Tucci”, di prevedibilità esemplare, naviga nel déjà vu più deteriore e ostenta uno humour raggelante. Le derive propriamente fantascientifiche rimasticano malamente il binomio Alien – Prometheus. Il resto è fatto di personaggi che scompaiono e ricompaiono nel/dal nulla (Sophia Myles e Bingbing Li) e di una grandeur effettistica che, nel dopo-Pacific Rim, palesa tutta la propria inconsistenza materica. Il tutto, ovviamente, cucinato con i già citati ralenties, il dogmatico rifiuto del piano fisso, la proliferazione impazzita di inquadrature e qualche marchio di fabbrica bay-ano (i dettagli sulle chiappe delle teen, gli unici momenti genuinamente comici). Rimarranno delusi anche i fan dei Dinobot, accessori pleonastici a cui il film dedica non più di 6-7 minuti in tutto, buttandoli nella mischia secondo logiche oscure (c’è qualcosa di Avatar ma è roba parecchio criptica) e congedandoli in fretta e furia, coi N/Mostri che si danno letteralmente alla macchia.