TRAMA
Ryan Bingham è un cacciatore di teste che passa la sua vita tra un aereo e l’altro, felicissimo di non avere legami con niente e nessuno. A un certo punto nella sua vita irrompe Alex, un’affascinante collega. E le cose cambiano. Per lui, almeno.
RECENSIONI
Vincitore nel 2007 con Juno, Reitman torna al Festival di Roma con un lavoro che reinterpreta la commedia fondendo il registro sentimentale, che si rivela via via senza però aprire possibilità consolatorie, ma anzi amplificando l’amarezza di fondo, con uno humour al vetriolo, o preteso tale, sul mondo contemporaneo volto all’autodistruzione; la parabola di Bingham, una riscoperta della dimensione umana, omogenea a quella degli altri personaggi reitmaniani, inizia per aria, nella non-realtà in cui il protagonista si è rinchiuso, tutta aeroporti, camere d’albergo sempre pulite, tessere magnetiche, gestualità rituali ripetute all’infinito (i saluti delle hostess, il passaggio sotto il metal detector, la ricerca del check-in più veloce), un mondo in cui il lato oscuro è lasciato a terra, lontano il più possibile, rimosso per quel che riguarda sé stessi (la sua casa, la famiglia) ed esorcizzato per quel che riguarda gli altri (il suo lavoro di cacciatore di teste); Bingham vive per non vivere, consapevole e divertito fa della fuga da sé una teoria (lo zainetto da svuotare di tutti i pesi esistenziali) e sogna, come coronamento degli sforzi di una vita, di diventare il « re » di quel mondo tra le nuvole grazie ai punti-fedeltà delle compagnie aeree. Schizzando l’affresco allucinato di questo annichilimento il film tocca i suoi momenti migliori e riesce in una mirabile sintesi tra la vena comica e il sottofondo drammatico che le è co-originario (e che la comicità, velando, svela). A un certo punto, però, il cuore Bingham riprende a battere e Up in the air va a rotoli: man mano che il protagonista si riavvicina ai meandri bui dei sentimenti (verso Alex, ma anche verso le sue sorelle e la giovane Natalie) la strada da percorrere sembra già battuta e il film vira verso orizzonti prevedibili, salvo essere riscattato da un finale a sorpresa che relega in maniera definitiva (?) Bingham tra le nuvole, stravolgendo l’idea stessa di commedia.
Reitman, ostinandosi a costruire la seconda parte dei suoi film sul recupero sentimentale dei personaggi, sembra non volersi lasciar andare fino in fondo alla sua naturale indole cinica, notevole perché già di per sé complessa e problematica (la presenza/assenza dell’elemento drammatico, come detto sopra), e però, aprendosi alla filantropia, non riesce a non scadere nel dolciastro che all’improvviso sembra negare le leggi dell’universo che si è appena finito di costruire; dunque non raggiunge mai l’immediatezza caustica di Thank you for smoking e se in Juno l’equilibrio e la sensibilità della sceneggiatura riuscivano a dare corpo umano ai personaggi, Up in the air si ferma alla superficie come un’operazione in cui, con quel poderoso lavoro visivo di destrutturazione dell’immagine (multiframe, montaggio iperveloce sui dettagli) sulla scia dei Coen e di Tarantino, Reitman si limita a ripetere sé stesso. Un po’ presto per stare solo al terzo film.
Prodotto dalla Montecito Picture Company (società fondata nel 1998 da Ivan Reitman, padre di Jason), Tra le nuvole è liberamente tratto dal romanzo del 2001 Up in the Air di Walter Kirn (già autore di Thumbsucker). Prendendo spunto dal libro di Kirn e da un primo adattamento di Sheldon Turner, Jason Reitman ha apportato numerose varianti al soggetto originale, sollecitato da due eventi non trascurabili: il suo matrimonio (con annessa paternità) e la recente crisi economica che investito gli Stati Uniti (e non solo), rendendo particolarmente incandescente la materia narrativa del romanzo. Iniziato nel 2002 e originariamente concepito in chiave satirica, il lavoro di sceneggiatura si è dunque trasformato nel corso degli anni, modificando sensibilmente il carattere del trattamento: da una parte addolcendo i toni sarcastici e dotando il tagliateste Ryan Bingham di un più consistente strato sentimentale (il rapporto con la novellina Natalie non è privo di implicazioni paterne, così come quello con la disinvolta Alex non è scevro di aspirazioni coniugali), dall’altra esacerbando gli aspetti cinici della Career Transition Corporation e dando maggior rilievo drammatico alle figure dei “congedati” (le scene dei licenziamenti sono interpretate quasi esclusivamente da persone che hanno davvero perso il lavoro e che hanno risposto a un annuncio pubblicato sul giornale da Reitman).
Tra le nuvole ma anche coi piedi per terra, dunque: tenendo a freno le provocatorie arguzie di Thank You For Smoking e sbarazzandosi dei vezzi indie che ammorbavano Juno, il terzo lungometraggio di Jason Reitman (classe 1977) non ha timore di scherzare coi luoghi comuni (“Sono come mia madre, uso gli stereotipi: si fa prima”, dice Ryan a Natalie che gli rimprovera di essere razzista) e di confrontarsi coi cliché della commedia sentimentale (l’improvvisata notturna a casa di Alex), riservando l’originalità al disegno dei personaggi e al paradosso delle situazioni. L’attitudine erotica risulta capovolta rispetto ai canoni sessuali (chi sgattaiola via la mattina dopo sono le donne e non gli uomini), l’efficienza professionale evidenzia una contraddittoria componente umana (l’opposizione di Ryan all’asettica procedura ideata da Natalie) e le circostanze più delicate si velano di assurdo (la vittima del primo licenziamento telematico seduta nella stanza accanto a quella occupata da Ryan e Natalie): tocchi di eccentricità che riscattano il consunto canovaccio dell’uomo arido da rieducare affettivamente e rendono meno indigesto il prevedibile percorso narrativo che porta da “Il movimento è vita” a “La vita è meglio in compagnia”, due frasi emblematiche pronunciate da Ryan verso l’inizio e la fine del film.
Certo, Reitman non possiede un fulgido estro visivo e spesso si adagia in una regia piuttosto schematica (campo/controcampo e via) quando non addirittura sciatta (il party organizzato per i congressisti nell’hotel), ma la messa in scena trae profitto da un cast di comprovata affidabilità (George Clooney e Vera Farmiga mettono un tantino in ombra la volitiva Anna Kendrick a dire il vero), da un montaggio scorrevole e vivace (le procedure d’imbarco, le visioni aeree sulle metropoli e sui paesaggi), da una fotografia che varia la temperatura cromatica a seconda delle città attraversate (dalle dominanti calde di Phoenix alle tonalità fredde di Detroit passando per le sfumature dorate di Wichita) e da un’attenzione agli spazi e ai dettagli tutt’altro che approssimativa (il film è stato girato in location prevalentemente reali e le distinte connotazioni geografiche si fanno sentire sia negli ambienti che nei costumi). Se alcune soluzioni sguazzano nel simbolismo di grana grossa (il bacio romantico tra Ryan e Alex sulla barca che provoca il blackout a bordo) e altre si crogiolano nella retorica cinematoriale (il matrimonio nel Wisconsin, girato in video a differenza del resto del film), il trentaduenne cineasta canadese ha le idee chiare nell’abbinamento immagini-soundtrack, indovinando una sequenza di tutto rispetto: il ritorno di Ryan nel vecchio college di Waupaca, sulle struggenti note di Angel in the Snow di Elliott Smith. Senza imporre pietismi o patetismi strappalacrime (le conseguenze suicide di un licenziamento sono riferite con incisiva asciuttezza) e assicurando saldamente l’identificazione dello spettatore al protagonista (le rabbiose reazioni dei licenziati collocate in apertura e rivolte verso Ryan non inquadrato), Reitman padroneggia infine il temibile espediente della voce over, dosandone equilibratamente le occorrenze tra la presentazione ufficiale dell’incipit e il volo pindarico del finale.
Reitman sta diventando una certezza: con questo terzo, meraviglioso film, rischia di diventare, per qualità e inventiva sarcastica, il nuovo Billy Wilder. Possiede un’impronta registica personale, anche quando lavora su sceneggiature non sue (vedi il precedente Juno), fra generosità di dettagli sagaci, montaggio musicale (i titoli di testa con vedute aeree), idee a profusione (rifacendo anche Il Favoloso Mondo di Amelie), talento encomiabile nel dare corpo a personaggi non stereotipati (l’Io narrante di Clooney replica il mettersi nei panni del manipolatore di Thank you for Smoking), agganciandosi (come Wilder, del resto) alla tradizione della commedia edificante made in USA standone completamente al di fuori. Lo spunto è offerto dal romanzo di Walter Kirn, stravolto, adattato alle proprie corde (sono farina del sacco di Reitman, amante del volo, tutte le divertenti “tecniche” dell’uomo che vive in aeroporto) e ai fatti contingenti: la sua sceneggiatura, infatti, è stata modificata in corso d’opera, per tenere conto della crisi economica in atto e inserire scene con persone licenziate veramente. A questi ultimi il regista dedica un finale (sui titoli di coda, a sorpresa, c’è anche la canzone di uno di loro) dove confessano che il tesoro più grande è la famiglia, chiudendo il cerchio in modo esemplare sui due temi portanti dell’opera (crisi e affetti, dove chi vive sulle spalle della prima, non ha i secondi). La morale è sposata senza faziosità o formule preconcette e con colpi di scena/al cuore: la magia di questa commedia amara alberga tutta nel delineamento dei caratteri, con un posto speciale per la coppia anticonformista e romantica di Clooney/Farmiga.