CARTOLINA DA TORONTO/ 6 – INTERVISTA A ADRIANO VALERIO

Il nuovo cortometraggio del regista lombardo Adriano Valerio (Mon Amour, Mon Ami) racconta, a tratti quasi impressionistici, la relazione tenerissima fra Daniela e Fouad, persone con passati difficili e presenti incerti, due solitudini che si avvicinano per trovare conforto, e forse amore, l’una nell’altro. Entrambi segnati da una vita trascorsa combattendo l’abuso di sostanze stupefacenti, si ritrovano a un bivio presentato dalla necessità di Fouad di ottenere cure mediche, impossibili senza un valido permesso di soggiorno. Inizialmente Daniela si risolve a sposarlo, ma poi cambia idea, e le cose restano sospese nelle nebbie dell’inverno umbro che li circonda. Presente al Toronto International Film Festival, il regista mi ha concesso un’intervista lunga e dettagliata sulla sua carriera e sul suo ultimo film.

Mi sembra che un tema che ti sta a cuore sia l’impatto che ha la mobilità umana, in tutte le sue permutazioni, sui sentimenti, sulle relazioni interpersonali. Ci sono vicino?

Ci sei vicino. In generale, il mio approccio accade in maniera molto naturale. Io ho la fortuna nella mia biografia personale di viaggiare molto, di aver viaggiato molto. Ogni tanto posi il tuo sguardo su una situazione che ti affascina e decidi che questa situazione deve diventare un film. E solo a ritroso, quando ho l’occasione di parlare, come adesso, dell’insieme del mio lavoro mi rendo conto che effettivamente sì, forse il tema chiave è lo spaesamento, cioè una situazione data che viene sconvolta da un viaggio. In uno dei miei primi cortometraggi c’erano una madre e i figli che dovevano andare in un posto dove erano stati cento volte, ma prima guidava sempre il padre, che è morto recentemente, e il posto non si trova. Forse, in nuce, è questo il tema che poi ritorna sempre. Una dinamica umana legata a una geografia incerta. Però non mi considero un grande pensatore. Mi considero un discreto osservatore. Questo film, per esempio, ho cercato di proteggerlo un po’ anche a Venezia, perché appena si tocca il tema dell’immigrazione si trasforma in una categoria che fagocita tutto il resto. Spariscono le sfumature dei personaggi, la scrittura. In questo film il tema dell’immigrazione è evidente, si parla di un permesso di soggiorno. Però per me Fouad è un uomo, un uomo innamorato forse, con una malattia fisica, un uomo che avuto problemi di alcolismo, in un film che coinvolge anche una donna. Certo, il tema dell’immigrazione è presente, ma il suo spaesamento è importante, è c’è anche quello di Daniela, che si ritrova a Gubbio. Era successo anche prima, con il mio lungometraggio Banat, e qualcuno aveva provato a speculare politicamente. Banat parla di alcuni italiani del sud che vanno a vivere in Romania perché hanno trovato lavoro lì. Però non era un film a tema sulla migrazione, ma deliberatamente un lavoro sullo spaesamento.

Questo tuo scetticismo per i grandi temi emerge anche nella forma del documentario, in cui ti tieni un po’ a distanza, non invadi la vita dei suoi soggetti, o personaggi, o protagonisti, come vuoi chiamarli…

Ti svelo il dispositivo. Loro sono persone reali, tutto ciò che è raccontato è vero. C’è una parte in cui ho chiesto loro di raccontarmi le loro vite, ed una parte in cui gli ho chiesto di rimettere in scena qualcosa che è realmente accaduto un mese prima delle riprese. L’unica parte completamente scritta, è tutta quest’ultima sequenza degli alberi di natale. A Gubbio c’è effettivamente l’albero di natale più grande del mondo, ed io volevo integrare questo elemento. La mia paura era il passaggio, delicatissimo, fra l’empatia e il pietismo. I personaggi sono degli emarginati, delle persone che hanno sofferto e soffrono molto. Io provo un grande piacere nel cercare di dar loro una dimensione tridimensionale, evitando la rappresentazione bidimensionale dell’alcolizzato, della drogata… A me piace moltissimo l’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, in cui dopo la morte tutti i personaggi, lo scemo del villaggio, il giudice, il matto, si danno una prospettiva diversa. Io speravo di poter dare loro questa tridimensionalità. Però mi sono reso conto che le loro vite sono così piene di eventi, e le loro personalità così forti, così affascinanti che è bastato semplicemente raccontare qualcosa di loro senza romanticizzare il tutto, perché il rischio era poi di diventare pietista. E penso che proprio la categoria dell’immigrazione ci ha imposto questa ottica. Gli occhi delle persone sono saturi, purtroppo, e in qualche maniera, appena c’è un momento di retorica, le persone spengono la loro attenzione. Ecco perché ho voluto evitare il pietismo. Tutti i miei film, mi accorgo in maniera retrospettiva, sono terminati o con un allontanamento del personaggio dalla macchina da presa, oppure (come in questo caso) con una macchina da presa che è molto vicina a loro e che si allontana dell’ultima inquadratura. Io ho consegnato un racconto di queste persone, e poi mi allontano, perché la loro vita continua, in ogni modo, al di là del cinema.

C’è un momento straordinario in cui eviti il pietismo, quando Daniela va a scuola a condividere la sua esperienza di vita, l’alcolismo e le conseguenze che ha sulla percezione del tempo. Le giornate che si consumano sempre uguali, le settimane, e poi i mesi… La sua storia acquista una funzione sociale, in cui lei ha un ruolo fondamentale nella vita dei ragazzi, un ruolo educativo importante all’interno della comunità, non più ai margini, dove capiamo che ha vissuto gran parte della sua vita.

La cosa su cui abbiamo perso un po’ il sonno, io e la montatrice, Alice Roffinengo, è una scena in cui Fouad va dal dentista. Avevamo materiale per una mezz’ora, ma volevamo tenere la porta aperta all’idea di farne un lungometraggio. Fouad aveva una placca in bocca, ma a causa in un problema con la giustizia aveva perso il permesso di soggiorno e non poteva più farsi operare. E quindi aveva questa placca che gli spaccava la faccia. Avevamo una sequenza con un dentista che spiegava questa cosa, un’inquadratura molto stretta sulla sua bocca… Da una parte, mi piaceva questa violenza. Penso al decalogo di Kieslowski: quando mostri un uomo morto, devi mostrare anche che c’è la merda per terra, devi sentire il rumore delle carrucole che lo alzano. È giusto, secondo me, non è pornografia, è rispetto. Io amo anche, in qualche maniera, mostrare. Non so ancora se abbiamo fatto bene. Era qualcosa che poteva chiamare lo spettatore a troppo pietismo, o disturbare eccessivamente la storia. È stato un dibattito che abbiamo avuto a lungo.

Aronofsky, che è al festival con mother!, dice che un film non è finito finché non togli la tua inquadratura preferita. Quell’immagine che àncora il film, poi alla fine va tolta, perché la ami talmente tanto che non sai distinguere se serve o meno alla narrazione. A proposito del festival, cosa hai visto e cosa hai intenzione di vedere?

Ho visto un documentario rumeno che si chiama Soldiers. Story from Ferentari di Ivana Mladenovic, che peraltro è prodotto dalla stessa produttrice del mio documentario. Una storia di integrazione e omosessualità in una provincia rumena. C’è una scena di un avvicinamento di corpi di due uomini, che non ti aspetti, due non-attori, con una fisicità, una delicatezza, e una violenza straordinari. Poi mi sono preso cinque biglietti: Una questione privata dei Taviani, Hannah di Pallaoro, di cui ho adorato Medeas, poi vado a vedere Ben Russell (Good Luck), e Caniba.