CARTOLINA DA TORONTO/ 5 – EMERGENZA EUROPA

Il cinema europeo presente al Toronto International Film Festival si confronta con la realtà, ormai consolidata, della mobilità umana, fenomeno che in questo 2017 ha raggiunto proporzioni che non si erano registrate sin dalla fine della seconda guerra mondiale. Gli organi politici e i media la definiscono una crisi, cercando di fare distinzioni ipocrite fra rifugiati e migranti, fra popolazioni in fuga e cercatori di felicità, fra etnie perseguitate e lavoratori stagionali. Il cinema risponde registrando gli effetti che provoca su geografie comunitarie, sulla percezione di confini tracciati da conflitti dimenticati, su apparati burocratici, culture, lingue, e soprattutto sentimenti. L’attrice e sceneggiatrice Iram Haq ritorna dietro la macchina da presa per firmare il suo secondo lungometraggio, What Will People Say (Hva vil folk si), la storia di una famiglia pakistana emigrata in Norvegia. Dopo il fortunato esordio I am Yours (Jeg er din, 2013), che si concentrava su una madre single anch’essa pakistano-norvegese e alla ricerca di amore, Haq identifica la sua protagonista in Nisha (una straordinaria Maria Mozhdah), adolescente che sfugge al controllo della famiglia ultraconservatrice e si tuffa nei valori occidentali, solo per esserne strappata violentemente dal padre Mirza (Adil Hussain), che la rapisce e la spedisce in Pakistan, affidandola alle cure della zia e promettendola a nozze. I servizi sociali norvegesi si rivelano inefficaci, e la ragazza dovrà trovare in se stessa i mezzi per emanciparsi dalle pressioni della comunità che la circonda. Il ciadiano Mahamat-Saleh Haroun presenta A Season in France (Une Saison en France), in cui Abbas (Eriq Ebouaney) si innamora della fiorista Carole (Sandrine Bonnaire) mentre attende una risposta alla propria richiesta di asilo. Accompagnato dai due figli e dall’intellettuale Etienne (Bibi Tanga), anch’esso fuggito dalla Repubblica Centrafricana, l’ex professore di francese si arrangia come può, e si tormenta per non essere riuscito a proteggere la moglie, uccisa dalla milizia durante il viaggio. Mentre What Will People Say adotta un tono chiaramente personale, e si avvicina (anche con la macchina da presa) al suo personaggio, studiandone nei minimi dettagli espressioni e turbamenti, A Season in France tiene le distanze, concentrandosi su gruppi di persone, su relazioni con il paesaggio, muovendosi sul piano dell’intelletto e della poesia. Li accomuna la posizione inevitabilmente realista, che si confronta con le prigioni culturali e burocratiche senza abbassare la testa, senza suggerire soluzioni facili e idealiste, anche quando la narrazione sembrerebbe portare in quella direzione. Diversamente fa Urszula Antoniak, che nel suo notevole Beyond Words sceglie la via della stilizzazione, affidandosi al bianco e nero, ai virtuosismi di macchina, e a un montaggio pieno di pause e di ripartenze per raccontare la storia di un giovane e bellissimo avvocato di origine polacca emigrato in Germania. Quando il padre del ragazzo si presenta alla sua porta con intenzioni non del tutto chiare, l’illusione di essersi integrato, di “passare” per tedesco, comincia a scricchiolare, esponendo la fragilità di un modello integrativo basato sull’assimilazione portata al suo estremo. Lasciato solo con il proprio sconforto, Michael (Jakub Gierszal) sprofonda in una disperazione che si tramuta, ironicamente, in emozioni che pendolano fra la violenta xenofobia e la volontà di offrire rappresentazione legale ai nuovi arrivati sul contestato suolo europeo. Anche l’ultimo film di Aki Kaurismäki, The Other Side of Hope (Toivon tuolla puolen), riconosce che la crisi è arrivata a bussare alle porte dell’Europa del nord, e che la risposta non è necessariamente diversa da quella dei paesi meridionali, sottoposti a pressioni molto più elevate. Sakari Kuosmanen, al dodicesimo film con Kaurismäki, ritorna nel ruolo di Wikström, esperto giocatore di poker e ristoratore improvvisato il cui destino si incrocia a quello di Khaled (Sherwan Haji), profugo siriano richiedente asilo in Finlandia. Lo stile asciutto e i personaggi vagamente eccentrici, firma inconfondibile del maestro finlandese, non si prestano necessariamente a raccontare adeguatamente le esperienze strazianti di un paese lacerato dalla guerra, ma il veterano regista sa dare spazio alla maschera efficace di Haji, che in una serie di monologhi posiziona la pellicola fermamente nell’emergenza, anche se vista attraverso le brevissime giornate di una Helsinki spesso buia e solo apparentemente sonnolenta.