CARTOLINA DA TORONTO/ 3 – J. M. GULBRANDSEN

Aslak si convince che la tranquillità del suo paesino sia minacciata dalla presenza di un lupo mannaro.

Pierino e il Lupo Mannaro
Il nucleo famigliare di Aslak (Adam Ekeli), bimbo esile e taciturno, è limitato alla sola presenza della madre (Kathrine Fagerland), la quale fatica a dedicarsi al piccolo poiché chiaramente turbata dalla prolungata assenza del figlio maggiore. Sporadicamente la polizia visita la donna per portarle notizie del ragazzo, tormentandone l’esistenza piuttosto che offrendole un aiuto concreto. Nel frattempo, gli ovili della comunità rurale nel quale è ambientata la vicenda vengono periodicamente visitati da una creatura che uccide vari capi di bestiame. Influenzato da un amichetto di qualche anno più grande, Aslak si convince che si tratti di un lupo mannaro, e quando una notte il suo cane non rientra a casa, il bambino si avventura nei boschi circostanti per cercarlo. Il primo lungometraggio di Jonas Matzow Gulbrandsen si ispira alla fiaba musicale Pierino e il Lupo di Sergej Prokof’ev, della quale eredita l’ossatura e l’antropomorfismo di animali e vegetazione, ma il regista norvegese ne modifica decisamente i toni, lasciandosi alle spalle ogni ottimismo e virando fortemente verso il gotico. Il film è infatti una meditazione sull’infanzia e sull’impossibilità di comprendere il mondo degli adulti se non attraverso la metafora, ma nonostante l’immediatezza di questa poetica la pellicola non si presta ad una facile lettura a chiave. Piuttosto, Gulbrandsen enfatizza l’incapacità di comunicare nei suoi personaggi, la mancanza di coesione nella comunità, l’ambiguità nei rapporti interpersonali. Il risultato è un film afasico, che rifiuta di essere letto secondo codici generici o convenzionali, improntato sulla contemplazione più che sulla narrazione, che deliberatamente lascia inesplorati gli scenari horror promessi. I modelli di riferimento solo svariati ed ambiziosi, ma non sempre coesi: impossibile non vedere nel trattamento del mondo naturale i piani sequenza di Andrei Tarkovsky, che viene accostato all’atmosfera onirica di The Night of the Hunter (Charles Laughton, 1955), del quale riproduce perfino svariate (bellissime) inquadrature, soprattutto nel misterioso viaggio fluviale di Aslak. Da quest’ultimo Gulbrandsen trae anche l’idea del lupo mannaro, questa volta non incarnatosi nel leggendario Reverendo Harry Powell interpretato da Robert Mitchum, ma restando sospeso nella fantasia e nelle paure del bambino. L’osservazione da vicino di un mondo infantile che può rivelarsi popolato da creature fantastiche, e la tavolozza di colori de-saturati che tornano indietro nel tempo ricordano anche Let the Right One In (Tomas Alfredson, 2008) e The Witch (Robert Eggers, 2015), ma Valley of Shadows non si tuffa pienamente nei terrificanti piaceri offerti dal genere come fanno questi, preferendovi la via dell’osservazione psicologica, e restando in bilico fra il dramma famigliare e la favola gotica.