Una vacanza sulle Dolomiti si trasforma in un’occasione per lasciar emergere violentemente tensioni latenti.
Paternità
inizia come un dramma familiare il nuovo film del tedesco Jan Zabeil, che torna a contare sulla indiscutibile fisicità di Alexander Fehling dopo Der Fluss war einst ein Mensch (2011), collaborazione che vedeva l’attore berlinese perdersi nelle paludi del Botswana. L’esplorazione geografica come metafora di quella spirituale resta il tema centrale della vicenda, che si sposta però dal cuore dell’Africa meridionale alle pendici delle Dolomiti, e si estende ai delicati equilibri che contraddistinguono i rapporti interpersonali fra Aaron (Fehling), la sua compagna Lea (Bérénice Bejo), e Tristan, il figlio di lei (Arian Montgomery). L’evidente desiderio di paternità di Aaron si traduce nella sua incapacità di rispettare i limiti del suo ruolo nella sfera affettiva del bimbo, proponendosi implicitamente come modello di una mascolinità alternativa a quella del padre biologico, la cui voce compare (senza mai incarnarsi) solo attraverso il telefonino del figlio. Gli sforzi del patrigno si traducono non solo in entusiaste manifestazioni d’affetto, ma anche in pratiche lezioni di vita, dal nuoto all’uso di attrezzi per tagliare la legna, dall’alpinismo alle tecniche di sopravvivenza in montagna. L’effetto ottenuto nel cuore del bambino non è però necessariamente quello desiderato, e presto l’idillio bucolico prende una piega piuttosto sinistra. Zabeil dimostra competenza ed efficacia nella costruzione della storia, poggiandosi chiaramente sulle capacità naturalistiche della veterana franco-argentina Bejo e sull’indubbio talento di Fehling, che dimostra una grande maturità nel non scoprire le carte troppo presto, lasciando che l’ambiguità emotiva del suo personaggio si muova dietro la superficie della sua maschera virilmente barbuta. La tonalità del terzo atto del film di Zabeil echeggia i quadri profondamente turbanti di Michael Haneke, senza mai sfociare nel sadismo disperato di quest’ultimo, e senza soprattutto basarsi su un colpo di scena che cambi improvvisamente gli equilibri pazientemente stabiliti nei primi due atti. Diversamente da Haneke, le cui inquadrature spesso sfiorano il virtuosismo (per durata, composizione, o ingegno), Zabeil non si distingue dal punto di vista stilistico, ma si accontenta di osservare da vicino il lavoro degli attori e di accostarlo alla maestà delle alpi, trasmettendo una sottile incertezza sulla nozione che la natura umana sia intrinsecamente buona, e procedendo con passo sicuro verso un climax apparentemente circolare ma non del tutto ovvio.