Miniserie, Poliziesco

TOP OF THE LAKE

TRAMA

Paradise, Nuova Zelanda. La dodicenne Thui si immerge nelle acque del lago di South Island, ma viene salvata un attimo prima di lasciarsi andare. La giovane, interrogata e sottoposta all’esame ginecologico, risulta essere incinta. Il caso viene affidato alla detective Robin Griffin, specializzata in crimini dell’infanzia. La piccola Thui scompare. Tutto il paese è sospettato.

RECENSIONI

Cos’è

“Ho girato la storia come un film, come un pezzo unico”. E’ stata chiara Jane Campion, nella conferenza stampa di presentazione alla Berlinale 2013, consigliando esplicitamente la visione tutta di seguito: Top of the Lake è un film di 353 minuti, sottoforma di miniserie divisa in 7 puntate di circa 50 minuti ciascuna, coprodotta dai canali BBC Two (Gran Bretagna), UKTV (Australia) e Sundance Channel (U.S.A.). E’ stata scritta insieme all’australiano Gerard Lee, già collaboratore in Sweetie, diretta insieme all’australiano Garth Davis (che non firma il primo e l’ultimo episodio), ma si realizza presto come passaggio fondamentale della regista Campion che imprime la sua indelebile impronta. La cineasta neozelandese respinge la logica contemporanea della serialità (“Mi piaceva questo mondo, ma non per 20 episodi”), come dimostrano le puntate spesso divise fra loro in modo apertamente disinteressato, quasi gratuito, ovvero con l’uso della dissolvenza come collegamento di una puntata all’altra invece che raccordo tra una scena e la successiva. Così, a ben vedere, si forma gradualmente un compromesso tra l’oggetto film e lo schermo televisivo che viene maneggiato sovrapponendolo alle proprie esigenze: da una parte è evitato l’impegno produttivo di una “vera” stagione, dall’altra viene aggirata la gabbia del minutaggio cinematografico, palesemente insufficiente (6 ore sfiorate, 20 attori principali più le comparse). Sulla natura del progetto, la sequenza iniziale ha titolo di esempio: Thui esce di casa in campo lungo e si lancia in una fuga in bicicletta, seguita da una doppia carrellata; la ragazza è poi ripresa in campo lunghissimo, diventa un puntino iscritto nel paesaggio spoglio, quindi l’inquadratura stringe e la vediamo immergersi nel lago: da qui parte un campo medio che le si avvicina lentamente da dietro, aspettando la tragedia, infine Thui viene ripescata proprio mentre la sua figura si sdoppia riflessa nell’acqua. Più cinematografico di così. Dopo la premiere al Sundance, Top of the Lake è stato trasmesso da Sundance Channel dal 18 marzo al 15 aprile 2013.

Gli attori, i personaggi
La detective protagonista, principale punto di prospettiva, è Robin Griffin interpretata da Elizabeth Moss. La Peggy di Mad Men cambia registro rispetto a quella serie e, dimostrando versatilità notevole, modula una figura prismatica dalle molte sfaccettature: inizialmente calata nell’archetipo dell’investigatore, presto inizia un percorso di svelamento che riguarda i sentimenti e il suo passato, dove il detective indaga sé stesso. Intorno a lei ruota l’indecifrabile mentore, il sergente Al Parker (un ambiguo David Wenham), guida nel territorio estraneo che di volta in volta si allontana e si avvicina (pericolosamente) alla ragazza. Il “padrone della città” Matt Mitcham è l’ennesima prova esplosiva di Peter Mullan, vero lato oscuro di Paradise; ma anche la sua recitazione sovraccarica fa parte dell’inganno, forse, visto che suggerisce un facile colpevole e l’attribuzione delle responsabilità tanto automatica quanto sbrigativa... Tra i suoi figli quello che riflette meglio la doppiezza è Johnno, incarnato da Thomas Wright illeggibile fino alla fine. Ma, al di là di tutto, il personaggio più campioniano è certamente GJ di Holly Hunter: ipotetica vendetta della “donna contro l’uomo”, la master della comunità femminile riserva massime spiazzanti, capaci di reindirizzare il corso della storia, darle nuovo senso, soprattutto rivelare angolazioni inedite che costringono continuamente a interrogarsi sul suo ruolo narrativo (depositaria dell’enigma? Alter ego della regista?), che in ultimo resta sospeso. Thui ha il volto di Jacqueline Joe, che diventa subito icona a partire dalla foto/sigla, i cui tratti asiatici ritagliano un sottotesto etnico secondario ma possibile nell’intreccio (la fragilità della vittima è “aumentata” dall’origine thai, dall’estraneità fisionomica al contesto occidentale).

La storia
A prima vista, Top of the Lake è un thriller imperniato su una premessa classica: si cerca una bambina scomparsa. Dopo il duplice incipit che mostra la vittima poi la nasconde, infatti, si dipana una detection sotto l’egida del dubbio: fuggita, rapita o uccisa? E chi è il padre? Dall’altra parte, nella rosa dei sospetti, emerge gradualmente ma con una certa decisione il principio inderogabile del “nessuno è innocente”. Il disvelamento abbraccia non solo il caso principale, ma i suoi numerosi rivoli e loro ramificazioni: come una matrioska uno strato rimosso rivela un altro strato, le domande si affastellano, i segreti sono incastonati l’uno nell’altro e riguardano tutte le figure principali (qual è la vera natura dei Mitcham? Chi ha violentato Robin in passato? Johnno è alleato o antagonista? E così via). La soluzione dei nodi è intrecciata alle varie inclinazioni criminali occulte nella cittadina: omicidi, stupri, traffico di droga, pedofilia. Tutto viene “sorvegliato” dal ruolo ambiguo e sfuggente di GJ, sorta di faro sull’intreccio dall’interno, volto ad illuminare - secondo un’interpretazione personale e originale - i suoi angoli più bui. Mantenendo Robin in posizione di protagonista, il flusso della narrazione cattura i vari personaggi passando continuamente dall’uno all’altro, celando per lunghi tratti la sola Thui che è missing, e in forma di “presenza assente” induce a riflettere sulle sue reali motivazioni: ciò che le è accaduto è, in ultima istanza, la fine della storia. Un intreccio tentacolare e polimorfico, che si dipana sfruttando i simboli e alimentando ossessioni (la foto della bimba scomparsa), innescando così un page-turner cinematografico che ottiene pienamente l’effetto ipnotizzante (vuoi sapere come finisce, non puoi smettere di guardare). Al netto di questo, però, risulta evidente che il racconto si esaurisca essenzialmente in una raccolta di archetipi del genere. Non è dunque il plot in sé a fare la grandezza della miniserie.

Il lago cinema
Varie letture si possono azzardare per sciogliere il mistero di Top of The Lake tra cui quella, legittima ma limitante, della traccia cripto-femminista (la figura di GJ, ancora) e della parabola sulla violenza dell’Uomo contro la Donna (di fatto le donne sono continuamente violate: lo stupro di Robin come possibile doppio narrativo della gravidanza di Thui). Inoltre, spesso i punti della storia si spogliano dal primo significato per lanciare allusioni simboliche implicite: come il pancione di Thui che sembra quasi “contenere” i segreti di Paradise (l’identità del padre appare la chiave della storia), oppure il mutismo di Jamie che, limitandosi a dire sì e no con le mani parlanti, incarna la reazione al degrado già stabile e introiettato nella provincia a cui, per tutta risposta, si oppone la negazione delle parole, si rinuncia alla verbalità in protesta contro il reale. Il simbolo imprescindibile è però il Lago. La superficie sempre placida nasconde qualcosa: per scrutare dietro la facciata, occorre effettuare una progressiva immersione verso l’ignoto. Il film si apre con la piccola Thui che si immerge, infatti, ma viene recuperata. Da quel momento saranno molti i personaggi a bagnarsi, per prima la protagonista: il lago richiama, attira, tutti vi tendono, tutti ne sono attratti. Superando il primo livello, diventa allora possibile suggerire l’idea di un lago di natura pellicolare: un lago/cinema, che sprigiona un’attrazione malsana ma a cui tutti tornano, di cui non si può fare a meno. Immergersi nell’acqua è immergersi nella pellicola, il fluido è lo stesso scorrere dei fotogrammi: così si spiega il rapporto di attrazione/repulsione che si instaura fra i personaggi e il lago, precipitato di un sentimento di amore/odio nei confronti della storia che si racconta, addirittura del potere attraente e respingente del fare cinema. E solo realizzando l’inabissamento si può erodere la superficie fino a vedere il sottomarino, rivelare l’occulto, mostrare l’invisibile che viene a galla nell’ultima puntata. Aggirando gli orpelli di genere, svuotando i dettagli del thriller, infine si ritorna al lago: si resta sempre immersi nel film.

E’ stato nessuno
D’altronde è lampante la volontà di intendere la successione degli eventi come pretesto, l’invito della regista a scavare ci arriva subito attraverso un gioco: l’indovinello sul colpevole che, indicato nel biglietto della vittima, innesca un whodunit che sarà riletto correttamente solo a posteriori. Tutto era chiaro e l’abbiamo visto dall’inizio: Thui scrive “No One”, ovvero “nessuno” ma anche “non uno”. Il colpevole sono tutti, ce l’hanno detto e mostrato, era davanti agli occhi, l’abbiamo sempre saputo. Con questa minima e fondamentale trovata, con questo scherzo serio Campion ci ha suggerito che la forma del thriller è disossata e maneggiata a piacimento, è una scatola vuote da riempire con le proprie peculiarità. Ogni luogo comune viene posto e smentito, il banale è percorso e sabotato: a livello figurato, basti considerare il disimpegno ironico che risolve il riferimento a Lynch (“We are reading Blue Velvet for our book club”, dice un personaggio); a livello tecnico, basti l’avanzare dell’epilogo dove Campion riprende la regia solitaria, girando un inseguimento pre-conclusivo in macchina a mano tutto memorabile. Top of the Lake film di Jane Campion, di nuovo, frammento coerente della sua filmografia come attestano i rimandi interni (il biglietto di Thui come quello di Keats in Bright Star, che paragonava l’esperienza sensoriale della poesia proprio ad un lago: “Lo scopo non è nuotare immediatamente a riva, ma restare nel lago, assaporare la sensazione dell’acqua”), scandaglio nell’interiore latente che sfrutta il genere come In the Cut, alieno infiltrato nel piccolo schermo che riflette continuamente su di sé: con il camuffamento e le maschere applicate alle situazioni, con la verità che è altro dall’apparenza, con il topos che viene disinnescato, con la metafora inclusiva del lago/cinema che ammalia e risucchia, si riafferma il potere del racconto. Il cinema non è morto, si è solo inabissato sul fondo; il cinema continua, seppure in altra forma, anche in televisione.