TRAMA
Alexia ha una placca di titanio conficcata nel cranio a causa di un incidente automobilistico…
Palma d’oro al Festival di Cannes 2021.
RECENSIONI
Procediamo con ordine, in un film che dice d'essere contro l'ordine. La bimba, dal sedile posteriore, non smette di imitare il rumore della macchina, di riprodurre, col suo corpo, il suo respiro, il suono del motore. Mmm, mmm, mmmmm, mmmmmmmmmm. Tiene le labbra serrate, non ascolta i rimbrotti del padre, lo sfida, lo sfianca (“lo esaspera” Barbara Palombelli) e lui finisce per perdere il controllo dell'automobile. Crash, direbbe David Cronenberg, o i cinefili in coro. Quell'incidente, letteralmente (pardon) veicolato, è per la piccola Alexia la prima piccola morte, un momento di passaggio, l'attimo in cui conquista la forma che vuole: ora anche lei è anche fatta di metallo, e del migliore. Di titanio, nella testa. Poi, dopo la copula, dopo l'orgasmo, c'è pure il tenerume: uscita dall'ospedale, corre verso l'automobile, e la bacia, contenta. Merci. È chiaro che questo corpo nuovo, futurista, queer, trans-umano, nasca dal rifiuto del padre (un medico, uno di scienza e ragione, e non è un dettaglio): il titolo è didascalico, per chi sa cosa sono i titani, e il nome è un manifesto come già nel primo film di Ducournau. Alexia, a-lexia, ha l'alfa che la priva della legge. E se in Raw era la sorella, un polo dialettico, una fase da cui emanciparsi, qui no, qui è la protagonista, è la forma del film (nell'esordio lo era Justine, ovvero, sadianamente, la nascita di una morale: qui Justine e morale compaiono e scompaiono nel giro di una scopata, di un omicidio, tanti saluti, non ci si rivede). Poi, dopo questo principio che è un vero e proprio elementare programma, il film si muove scomposto, dis-ordinato, privo di senso, di gusto, di legge, per l'appunto: capiamo che il piacere di Alexia è d'essere guardata, di farsi in primis oggetto scopico per lo sguardo del maschio da club, per l'omiciattolo che la osserva strusciarsi contro il freddo metallo dell'auto, e poi nel fare a meno di quel desiderio, godendo nel castrare il binomio donne & motori, togliendo dal dittico il ruolo dell'uomo, facendolo lei, il sesso, e con le automobili, e ciao maschio. Ogni ulteriore desiderio che la riduce a propria misura, ogni sguardo che la vuole riconoscere, ogni organo sessuale che la cerca, viene punito, ucciso, corpo su corpo, strage, step 2: gender swap dello slasher, parentesi didattica, nemesi furiosa da manifesto politico.
Alexia, dunque, rivendica se stessa secondo dottrina libertaria e liberista, fino a che la legge non la cerca, e lei è costretta a ridimensionarsi, a tornare a simulare, a fingere che: si riduce al corpo di un uomo, si annulla (il nome è Adrien, ad rien, “verso il nulla”), si cambia i connotati, si fascia il seno, nasconde la gravidanza trans-umana, si fa figlio (non figlia) di un padre ulteriore (un uomo di legge, un pompiere, perché come dicono gli ultras: “rispettiamo solo i pompieri”?). Un padre alla ricerca del figlio perduto. Un padre che non è padre, lontano da lui, da lei. Un padre sotto stereoidi, un padre aumentato, con cui s'instaura un rapporto tra corpi innaturali, non biologici, così come, grande metafora, non biologica è questa famiglia. Un padre che - come in Alps di Lanthimos, in Family Romance, LLC di Herzog, in Holy Motors di Carax – in lei/lui vuole credere, nel senso che sceglie di fingere che Alexia sia Adrien. Una questione ideologica, dunque: lui decide di non vedere, mentre lei asseconda questo desiderio, si annulla in esso per sopravvivere. O per essere amata? Per avere un padre? Sono due soggetti cinici per dirla coi filosofi. Sono due solitudini per dirla coi facili poeti. Due disperati, alla fine dei conti. Quando lui conferma l'accecamento voluto, svelandole che è conscio che il tutto sia un gioco, una simulazione, e che il ruolo del figlio sia solo un contenitore, la libera: torna, da Adrien, a farsi Alexia, a lasciarsi guardare dai pompieri mentre balla su una camionetta, torna a scoparsi ingranaggi e ferraglia, torna donna & motore. Poi (spoiler) muore, dando alla luce quel figlio macchinico, e facendo padre, di nuovo, quel padre che il figlio l'aveva perduto. Il padre di una nuova carne, certo. Ma lei, la nostra Alexia, la donna che fa a meno della legge dell'uomo, è scomparsa. Il padre no. “Sono qui”, dice lui, sul finale. È una frase struggente. O una condanna? Voglio dire: sicuri che questo sia un film femminista? Oppure un manifesto trans-genere?
Titane è la parabola di un corpo che vuole essere quello che vuole, che non può farlo per legge, che non può fare a meno del padre, che è costretto a coprire un ruolo, e che infine muore, scompare. Probabilmente è un mélo. E un raccontino morale (suo malgrado?) sul gioco identitario del poter essere, una caricatura grottesca della simulazione neoliberista. Un film sui falsi movimenti dell'oggi. La cassa di risonanza di un rigurgito irrazionale (la prima vendetta è contro il padre-scienziato) e privo d'orientamento. E lo stile? Conforme: forma fatta e strafatta d'altre forme, come la maggior parte del cinema dei quarantenni di oggi (non è postmodernariato, perché Tarantino è un intellettuale: questi sono figli del secondo grado perpetuo ed euforico di Gaspar Noé, ma privi d'ansie morali, d'ogni forma di rigore, d'ogni profondità teorica). Un crash di storie del cinema, dello spot, del videoclip, di superfici sature e grevi, sensazionalistiche ed efficaci, un balletto di immagini svuotate, alla ricerca furente, scomposta, dis-ordinata, di un senso. Una forma estremamente contemporanea. Un'identità fluida e paradossale, un cul de sac, una contraddizione. E badate: niente di tutto questo è detto in senso dispregiativo.