TRAMA
Una ragazza ama il suo uomo ma, temendo che il tempo possa ammazzare il sentimento, decide di cambiare volto…
RECENSIONI
Il bisturi come filtro d’amore, nel giardino umano dove la parvenza è unica diva. Kim Ki-Duk al tredicesimo lungometraggio raccoglie una materia atavica e, chiamato a rinnovarsi dopo la fondazione di una poetica peculiare, disegna una delicata variazione sul (suo) tema: il silenzio screziato di Ferro 3 (citato esplicitamente - il film viene montato dal protagonista) è qui un’inquieta parlantina che racconta la fine dell’amore, la malvagità parabolica de La Samaritana scivola verso la pena quotidiana, torna la metropoli tentacolare degli esordi ( Wild Animals è un poster sul muro). Time, piegato ad una scansione lineare eccettuate sporadiche digressioni (il link tra inizio e fine), è pervaso in orizzontale da sadici segnali di follia; il rapporto tra amanti, che parte come pura evocazione romantica, soffre la tara di lampanti ossessioni (routine, gelosia) e si propone come il fosco viaggio di due innamorati psicotici verso l’aperto impazzimento. Nel rapporto uomo/donna il coreano non ripone alcuna fiducia e riconosce, come in Twentynine Palms di Dumont, che sarà il fragile battito del tempo, l’accadere qualcosa o peggio ancora nulla, a porvi la definitiva pietra tombale. Su queste premesse il film, però, sposa raramente lo straordinario rigore cui il cineasta ci ha abituato: basato su un’unica idea che risulta invero parecchio rimestata (le operazioni sono molteplici, così il passaggio da un volto all’altro), popolato da figure irrimediabilmente minori (il detour sullo stereotipo del chirurgo), poco comunicativo, insomma, a livello narrativo - a meno di considerare la critica solare al dato estetico, regnante nella nostra società -, Time pecca inoltre nell’eccessiva esplicitazione di sensazioni altrove sottintese (Voglio solo amarti!, urla Ji-Woo nel metrò). Un tassello che non si incastra nel percorso artistico del suo autore, riassume lievemente le puntate precedenti - Bad Guy è il diretto referente - senza aggiungere nulla che non siano solo (solo?) sibillini squarci visivi. Una manciata di sequenze (Ji-Woo che calpesta le fotografie, l’amabile ironia erotica delle statue, il doloroso sarcasmo nel bar dei cuori infranti) insieme al gracile cenno pittorico (il gesto magrittiano di coprirsi il volto per celarne l’identità - cfr. soprattutto Gli amanti, 1928) che si imprimono, restano, sono gradini di un’opera imperfetta e stratificata e cancellano il tenue rimpianto di un film aggraziato, lacerante, solamente minore.

Time, lo diciamo senza mezzi termini, è un film imbarazzante: velleitario, allegorizzante, faticosissimo, il tredicesimo lungometraggio di Kim Ki-duk è il segno di un’involuzione stilistica letteralmente allarmante. Le avvisaglie di questa crisi espressiva si indovinavano ne La samaritana, dove i due cinema di Kim (uno ellittico e lacerante, l’altro didascalico e vagamente ammiccante) si scontravano violentemente, portando allo scoperto le tensioni segrete della sua estetica. Ferro 3, consacrazione internazionale del cineasta coreano, ha confermato lo slittamento del suo cinema verso il polo narrativo e didascalico, pur ammantato di un elusivo alone poetico, proseguito in modo inequivocabile con L’arco, film di una debolezza francamente preoccupante. Se possibile, Time supera L’arco in stanchezza espressiva presentando una pesantezza simbolica e una densità metaforica ben oltre la soglia della tollerabilità, anche per lo spettatore meno avvertito. L’asciuttezza lirica del primo Kim Ki-duk, capace di caricare di senso qualsiasi elemento della messa in scena, si è trasformata in afasia denotativa: il cineasta coreano sembra disinteressarsi completamente dell’elementarità semantica dell’immagine per prestare attenzione soltanto ai suoi risvolti metaforici, precipitando inavvertitamente in un simbolismo tanto inconsistente quanto poco strutturato. Il procedimento è talmente marcato da far pensare ad una pretestuosità di fondo: anziché “trovare” naturalmente i simboli nello sviluppo narrativo, Kim pare imbastire un percorso filmico funzionale alla loro esposizione, nella speranza che la giustapposizione di segni connotativi si organizzi autonomamente. In realtà l’accumulazione simbolica congestiona l’andamento del film rendendo poco plausibili, quando non involontariamente ridicole, le tappe della progressione drammatica. Emblematico lo sfogo a cui la protagonista si lascia andare, interpellando direttamente lo spettatore: non soltanto la sua disperazione suona artificiosa, ma il suo stato d’animo è addirittura visualizzato plasticamente dal décor. Il ruolo della scenografia è ridotto a didascalia visiva, insomma. Il simbolismo non manca di intaccare l’arrangiamento sintattico del film, dal momento che la crisi d’identità della protagonista si traduce in un montaggio progressivamente disarticolato e destrutturante, evidente e ingombrante metafora della difficoltà di riconoscersi in un’immagine ricostruita artificialmente. Attraversato da conati ferocemente autoironici (segnali di residua vitalità?), Time mette in scena per quasi 97 minuti un vero e proprio “dramma di stile”: il cinema Kim Ki-duk è agonizzante.

La ripetizione, la reiterazione continua di gesti in corpi diversi non fa che suggerirci insistentemente il collasso temporale che porrà fine alla narrazione, tanto da mostrarsi chiaramente come scopo ultimo di intere scene. Dialoghi improbabili e una recitazione monocorde levano profondità al dissidio interiore dei protagonisti, nullificano l'ovvio tema pirandelliano applicabile alle nozioni di ruolo e attore, che la presenza di più attrici nell'interpretazione dello stesso personaggio nascondeva quasi intevitabilmente. L'immagine non riesce a vibrare, ridotta a mero mezzo espostivo di un simbolismo già dato nella messa in scena. In Time non c'è molto sotto la voce attivo: sintomo di una regressione stilistica inaspettata, riesce a rivestire due tra le etichette più inutili e allo stesso tempo inflazionate del vocabolario critico, come studiato a tavolino e esportabile: questo per come la struttura del disegno sia assolutamente percettibile, sia nell'intero andamento narrativo, sia nelle singole inquadrature, in quei movimenti di macchina che sembrano rincorrere i simboli posizionati nella messa in scena, palesando un didascalismo stagnante, tentativo di farsi summa riconoscibile della poetica di un autore che ci aveva abituato esattamente all'opposto. C’è, tuttavia, un appiglio a cui possiamo ancorarci, una piccola e illuminante strada percorsa da Kim in queste rovine: è il coraggio con cui mostra entrambi gli elementi del melodramma, nella spietatezza con cui li separa, ad esempio immergendoci prima, ad inquadratura stretta, nel pathos drammatico di un litigio, per poi farci cadere nel ridicolo imbarazzo che lo contestualizza in uno spazio più grande (si confrontino anche le diverse reazioni che produce la maschera della donna). E’ il venire a galla di questo cinico ed ironico processo di dissezione che in parte ci conforta sulle pessime condizioni di salute in cui ci sembra ridotto il cinema del coreano: avrebbe bisogno di cambiare definitivamente volto, e non è detto che, come le insistite autocitazioni che costellano il film sembrano suggerire, lo stesso Kim non se ne renda conto.
