TRAMA
Un esercito di integralisti islamici occupa la città di Timbuktu imponendo la charia.
RECENSIONI
Pur sposando un’estetica convenuta, ai limiti del laccato da esportazione (satura di tramonti e melodie sciroppose), il nuovo film dell’autore di En attendant le bonheur (2002) e Bamako (2006), misconosciuto al di fuori dei circuiti festivalieri, è efficace, corretto, drammaturgicamente inattaccabile. Ma in parte deludente.
Con una scrittura polifonica e frammentaria, dove si dispiegano più microstorie che non necessariamente convergono, il regista mira in principio a far annegare i deliranti propositi dell’estremismo islamista nel mare magnun dell’assurdo: calciatori che giocano senza pallone come in un film di Antonioni, uomini e donne che aspettano Godot, femmine folli, scatenate, col demone sotto la pelle come Joséphine Baker.
La tragedia s’installa e impone progressivamente, dopo una prima parte tesa a ridicolizzare l’ideologia integralista e a destituire di ogni fondamento (i buzzurri incappucciati paiono in fin dei conti uccidere ciò che amano) e credibilità la démarche fondamentalista. Un’intuizione alla quale riconosciamo lungimiranza e intelligenza, un presupposto che permette al film di non appiattirsi sulla denuncia, di sfuggire ad una (ovvia) stigmatizzazione (perniciosamente) manicheistica. Il film accarezza così l’allegoria, sfiora l’universale: la folle violenza di chi crede, o fa finta di credere, in una verità assoluta da imporre, contro la libertà di pensiero e di espressione.
Fino a quando si nutre di frammenti non rispondenti ad una stringente logica causale l’opera ammalia, colpisce, destabilizza, come un film di Eli Souleiman, altro resistente e teatrante dell’assurdo: il sorriso disperato come unica reazione possibile alla manifestazione terribilmente limpida della follia umana. Una follia che non si può spiegare, e contro la quale si può solo resistere.
Tuttavia, smarriti in mezzo al fiume del non-senso, Sissako e la co-sceneggiatrice Kessen Tall sentono a un certo punto il bisogno di adagiarsi su una zattera di salvataggio, di aggrapparsi ad un evento narrativo forte, in grado di riconfigurare il racconto e di sospendere la “sospensione narrativa“ precedentemente instaurata. Dal gruppo emerge così una famiglia di tuareg. Causa ed effetto sono rispristinati, il film prende improvvisamente senso: delitto (involontario) e castigo (ingiusto).
Sissako rinuncia in definitiva all’inatteso, all’imprevedibile per rassicurare commovendo con una storia esemplare e “significativa”. Una scelta certo legittima, fruttuosa dal punto di vista della fruibilità del prodotto (grande successo di pubblico in Francia, suggellato da diversi César tra i quali miglior film e miglior regista), che accogliamo mestamente, rimpiangendo la grande allegoria abbozzata e poi perduta.

Abderrahmane Sissako è originario della Mauritania ma è cresciuto in Mali prima degli studi di cinema al VGIK di Mosca e del trasferimento in Francia (paese che co-produce): il suo intento, lodevolmente non urlato nel manicheismo o nell’indignazione, è mostrare, attraverso microstorie, l’assurdità delle leggi dei jihadisti, soprattutto nel momento in cui colpiscono devoti fedeli e persone miti: gli episodi si commentano da soli, dall’obbligo dei guanti per la pescivendola che non sa come tagliare la sua merce (e, giustamente, si infuria), all’imposizione per le nubili di sposare uno di loro; dalla proibizione del gioco del calcio che porta alla scena surreale in cui i ragazzini inscenano una partita senza palla, a quella della musica per cui, sommando le colpe, una giovane cantante subisce 40 frustate per la musica e altre 40 per l’esibizione in casa altrui. Ma Sissako insegue anche le sfumature: introduce la figura del prete della moschea, con cui i jihadisti discutono rispettosamente e che contesta le loro regole in modo pacato, citando il Corano e le lezioni di pietà di Maometto; gli stessi jihadisti non sono mostruosi e senza volto, dalla rigidità del capo si passa ai peccati del braccio destro (fuma e desidera la donna altrui). Meno comprensibile il motivo per cui non sia contestualizzato l’episodio che, a detta del regista, ha ispirato il film (la coppia lapidata, perché non sposata, nel 2012), risolto nella scena dell’esecuzione con inserti di scene rubate “dal vero” (con le reazioni del pubblico), mentre quello con la famiglia tuareg occupa più spazio, pur senza intellegibile apporto all’apologo generale (si è dinnanzi ad un omicidio involontario: la pena è ingiusta ma, prima, i jihadisti tentano altre soluzioni) e con misterioso finale, appariscente ma senza senso (perché la moglie va all’esecuzione armata? Chi è il motociclista? Dove corrono i due bambini nel finale?). Qualche idea estetica non deve essere andata a buon fine, anche previe dichiarazioni di Sissako (“Un western alla Leone”: richiamato solo dal motivetto musicale all’inizio). Anche la scena in cui il “regista” dirige il giovane nel suo pentimento “rap” ha l’aria gratuita.
