Drammatico, Netflix

TIGERTAIL

Titolo OriginaleTigertail
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2020
Durata91'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia
Costumi

TRAMA

L’operaio di una fabbrica di Taiwan, la cui vicenda è ispirata alla storia del padre del regista, lascia il paese e raggiunge gli Stati Uniti, dove faticosamente cercherà un equilibrio tra famiglia e responsabilità, nuove consapevolezze e rimpianti, ricordi e necessità del presente.

RECENSIONI

Prodotto da Netflix, Tigertail, esordio nel lungometraggio di Alan Yang, è un sottile dramma sui rimpianti e sulle seconde occasioni, giocato sui continui salti tra passato e presente e che guarda, un po' di soppiatto, la lezione di Jia Zhangke e delle sue epopee melodrammatiche e intime in cui la grande storia influisce sul destino, sulle scelte e sui percorsi delle persone.
In Tigertail, in realtà, l'aspetto per così dire "pubblico" ha un'evidenza minore rispetto alle opere di Zhangke, e decisamente più neutro e convenzionale è lo sguardo, se non anonimo perlomeno inerte. È però molto simile il meccanismo per cui l'individuo, rinunciando ad una parte decisiva di sé, sceglie come se venisse guidato dal contesto e dalle sue esigenze. L'emigrazione urbana, quella oltreoceano, il lavoro in fabbrica, il matrimonio d'interesse, i sentimenti calpestati in nome delle opportunità, la considerazione del ruolo femminile, il distacco con le seconde generazioni sono alcuni degli elementi che contribuiscono più o meno carsicamente a rendere la vita del protagonista un castello di rimpianti e di sliding doors sbagliate.
C'è anche un altro sottile legame con il cinema di Zhangke; una leggera vena quasi irreale e immaginifica, che talvolta emerge dando voce ai sommovimenti interiori e alla potenza dei ricordi e dell'immaginazione di una vita diversa sfumata e solo vagheggiata. Oltre alla sequenza introduttiva, si prenda come esempio il momento decisivo dell'abbandono di Taiwan, che in qualche modo è anche la definitiva rinuncia del vero sé; in quel momento, dal finestrino di un auto, al protagonista pare di avere un'allucinazione, dedicata al rimpianto decisivo capace più degli altri di condizionare un'intera esistenza.
Questa sottile vena irreale e immaginifica viene solo accennata da Yang, il quale preferisce affidarsi ad un racconto posato, leggero e convenzionale, che si prende pochi rischi e che decide di rimanere sulla superficie delle cose, giocando perlopiù nel campo del "carino gradevole". Anche a livello del più immediato impatto emotivo, Tigertail colpisce con forza relativa, quasi come se il regista volesse smuovere interiormente lo spettatore esclusivamente "per" le cose raccontate e non anche per "come" queste vengano raccontate. Dalla sua, Yang mostra di avere un certo gusto del découpage e di saper trattare la materia e i sentimenti con delicatezza, per quanto talvolta questa morbidezza d'approccio appaia eccessiva, togliendo forza e mordente.
Il rischio dell'anonimato, insomma, è dietro l'angolo; talvolta viene evitato, ma più spesso Yang cade nella trappola. Potremmo forse concludere questa breve riflessione considerando come, tolti pochi esempi perlopiù di nomi già affermati e già con una propria forte idea di cinema, nelle produzioni Netflix sembri sempre più difficile evitare il tranello dell'anonima carineria più o meno piacevole. Definitivamente, un marchio di fabbrica?