Drammatico

TI AMERÒ SEMPRE

TRAMA

Dopo quindici anni di reclusione per l’omicidio del figlio, Juliette esce dal carcere. A prendersi cura di lei è la sorella Léa, che, contattata dai servizi sociali, la ospita nella sua casa di Nancy insieme al marito Luc e alle due figlie adottive. Chiusa in se stessa e poco propensa ai rapporti sociali, Juliette inizia un faticoso percorso di reinserimento, scontrandosi con l’ostilità generale e relazionandosi problematicamente con gli amici della sorella.

RECENSIONI

Innanzitutto una velenosa premessa sullo scempio perpetrato dal doppiaggio ai danni di una pellicola che ha nella parola uno dei suoi principali fattori di interesse: non soltanto, come d’abitudine, il parlato italiano sovrasta i rumori d’ambiente nel più totale disprezzo dei livelli sonori originali, ma, cosa assai più grave, appiattisce e uniforma le differenze linguistiche che caratterizzano i personaggi e marcano profondamente le situazioni narrative. Un paio di esempi per misurare l’entità delle perdite: 1- Nella sequenza della visita delle due sorelle alla casa di riposo, quando la madre (Claire Johnston) si rivolge direttamente a Juliette (Kristin Scott Thomas) lo fa in inglese: il ritorno alla lingua primaria segnala l’attivazione del linguaggio più vicino alle emozioni e alla memoria, definendo un improvviso barlume di autenticità affettiva in una mente consumata dall’Alzheimer. Nella versione italiana la madre si rivolge ad entrambe le sorelle nello stesso idioma: del code-switching semplicemente non vi è traccia. 2- Durante una passeggiata nel centro di Nancy, Michel (Laurent Grévill) tesse le lodi di Léa (Elsa Zylberstein) a Juliette, dicendole che nel suo campo è una delle migliori specialiste in Francia, ma che è destinata a non fare carriera perché non è una “tueuse” (alla lettera “assassina”), intendendo significare che non è senza scrupoli. Alla pungente replica di Juliette: “Et vous, vous êtes un tueur?” (“E voi siete un assassino?”), Michel risponde “Est-ce que j’en ai l’air?” (“Ne ho forse l’aria?”). Nella versione italiana “tueuse” diventa “arrivista”, sicché tutto il gioco di sottintesi, basato sulla gaffe involontaria di Michel e sull’inversione delle parti, svanisce semplicemente nel nulla. Evidentemente i traduttori hanno avuto paura che il senso metaforico del termine fosse troppo difficile da afferrare: questa è la loro considerazione degli spettatori, questo il loro rispetto del testo filmico.
Esordio alla regia dell’affermato scrittore Philippe Claudel (Prix Renaudot nel 2003 con Les Âmes Grises), Ti amerò sempre è stato presentato in concorso alla 58ª edizione del Festival del Cinema di Berlino (2008) ed esce in Italia a quasi un anno dalla distribuzione in Francia. Nominato per il César come miglior film (la cerimonia avrà luogo il 27 febbraio), Il y a longtemps que je t’aime mette in scena il tormentato reinserimento di Juliette Fontaine dopo 15 anni di reclusione per l’omicidio del figlio. Al centro del racconto il rapporto tra Juliette e la sorella minore Léa, rapporto interrotto a causa dell’ingerenza dei genitori e chiamato adesso, dopo un quindicennio di pausa, al banco di prova: Léa si sente in colpa per aver abbandonato la sorella e cerca di recuperarne la fiducia dedicandosi a lei con zelante attenzione. Juliette pare indifferente o addirittura seccata dalle premure della sorella, ma gradualmente, sotto i poderosi colpi dell’affetto di Léa e della di lei famiglia, si apre nuovamente alla vita, complice la relazione d’intesa che stabilisce col sensibile Michel. Ma dietro la questione del reinserimento si agita un interrogativo ben più problematico e delicato: perché Juliette ha soppresso il piccolo Pierre? Il vero nucleo drammatico del film risiede in questa domanda (che ovviamente nessuno osa rivolgerle in modo diretto) e Claudel, anche sceneggiatore, non fa che ripetercelo con martellante insistenza.
Ogni situazione del film rimanda ossessivamente all’interrogativo occulto e i dialoghi, divaganti solo in apparenza, hanno giusto bisogno di un leggero colpo di timone per rientrare in rotta: il capitano Fauré (Frédéric Pierrot), responsabile della libertà condizionata di Juliette, le parla delle sorgenti nascoste dell’Orinoco e il gioco metaforico con le cause nascoste del gesto della donna si fa inevitabile; Léa rivela alla sorella i particolari del suo viaggio in Vietnam per l’adozione della piccola Emélia, cercando di ricavare da lei, indirettamente, il racconto segreto dell’infanticidio; Luc (Serge Hazanavicius) domanda evasivamente a Léa di che cosa parla con la sorella, spaventato a morte dall’enigma Juliette. Una scrittura greve e meccanica, insomma, che si addobba di mille reticenze e censure per creare un’impressione di complessità morale tanto teoricamente inculcata quanto concretamente smentita (emblematico il pistolotto propinato da Léa a un suo studente sulla molteplicità delle visioni del mondo, delle intenzioni e delle verità di Delitto e castigo).
Filantropismo e giustificazionismo blindano ulteriormente lo script: il primo nella descrizione di una cerchia di amici sempre pronti a soccorrere e far festa, il secondo nel recuperare anche i comportamenti velatamente sospettosi o apertamente molesti (il timore di Luc per l’incolumità delle figlie, l’indiscrezione di Gérard provocata dall’alcool). Ambientazioni simboliche ingombranti (le nuotate in piscina come immersioni nella memoria) ed enfatiche amplificazioni figurative (la contemplazione del dipinto sobriamente intitolato “Il dolore”) completano infine la segregazione del film in uno psicologismo che, inevitabilmente, non ha la forza di lasciare aperto l’interrogativo di fondo, preferendo la soluzione catartica della “verità in extremis” al dubbio critico della sospensione. Sarebbe imperdonabile rimproverare a Claudel di non avere girato un racconto morale à la Dardenne, ma sarebbe altrettanto scellerato gabellare Ti amerò sempre per un racconto morale, quando, di fatto, altro non è che la morale di un racconto: “mai giudicare dalle apparenze”. Elaborazione visiva non pervenuta.